A Milano è appena finita la settimana del Salone e Fuori Salone del Mobile, che è la fiera diffusa del design. In Italia questa parola ha avuto per anni un significato legato ad alcuni prodotti, ad alcune aziende e ad alcune riviste, ma qualcosa sta cambiando. Forse anche grazie alla rete e alla sua capacità di rimescolare le consuetudini, le idee, i processi creativi e produttivi.
Anna – Lo sanno bene i designer nativi digitali che ancora sono pochi, ma molto giovani. Sono persone che si muovono nella rete alla ricerca di team creativi, di produttori ovunque nel mondo, di mercati, come veri pionieri che spesso bypassano le lobby delle riviste di settore che, fino a qualche anno fa, sembravano essere le uniche istituzioni in grado di comunicare e certificare la qualità del design.
Siamo andati a fare un giro per vedere quali realtà utilizzano la rete come strumento di condivisione, progettazione, creatività e business condiviso.
Luca – Sinceramente, ho l’impressione che la maggior parte del design, soprattutto quello della grande industria faccia un uso molto sofisticato delle tecnologie produttive. Su quest’ultimo aspetto investe moltissimo in ricerca, ma di contro, il concetto di rete e di condivisione non le appartiene proprio. Il design è ancora un mondo di creatori individuali, che non possiede la dimensione di network che riconosco bene in architettura e in molti collettivi giovani. Il punto è: in cosa la rete potrebbe migliorare e rendere più interessante un mondo che sembra avere pochi spunti di reale spostamento dalle visioni e dagli usi contemporanei?
A.
– Qualcosa in giro c’è e perché il design sta riuscendo ad avvicinare tutti i personaggi e i pezzi della filiera: i creativi, i finanziatori, i produttori, i consumatori. Talvolta, anzi, spesso sono un’unica persona o una piccola comunità di stakeholders a vari livelli. Questo Salone ha sancito l’emancipazione dell’interaction design tradizionale, attraverso il desiderio di usare la rete come strumento collaborativo nella progettazione, nella produzione e nel finanziamento. Già da mesi chi lavora nel design non può non fare i conti con il termine che più gira in questo periodo: “making”. È un concetto che mi piace perché è proattivo, ottimista e assolutamente design-oriented.
L. – Tornare a riconsiderare l’idea del “fare” così come Richard Sennet aveva teorizzato parlando delle nuove figure d’artigianato credo sia una strada potenziale da percorrere.
Nel “fare” io cerco la consapevolezza del pensiero e degli strumenti d’attuazione. Nel “fare” cerco condivisione, scambio, proiezione verso scenari potenziali da indagare. Nel “fare” non voglio più ritrovare quella logica tardo liberista-imprenditoriale “alla Berlusconi” che tendeva a giustificare ogni scelta, anche la più scellerata, solo perché motivata dall’aver fatto qualche cosa in opposizione con chi invece “pensava” e non produceva.
A. – Al Fuori Salone del Mobile il termine “making” l’ho incrociato più volte, in maniera esplicita o sottintesa: Making Together di Logotel; The Future in the Making di Domus; e il remaking, come si potrebbe chiamare quella che in realtà è La Fabbrica al Contrario, un’idea di Giulio Iacchetti e Italo Rota con NABA; Milano Si Autoproduce alla Fabbrica del Vapore e un consistente numero di altri progetti in giro per la città.
L. – È interessante notare come il termine “making” si riconfiguri in una fase storica in cui tutto appariva smaterializzato. Forse stiamo fronteggiando un momento diverso, di maturità sopraggiunta nella relazione con la nuova macchina (il digitale) nella capacità, da una parte, di potenziare le relazioni e gli scambi e, dall’altra, di ritrovare il piacere fisico, sensoriale del proprio corpo agente nel mondo.
A. – Sicuramente la possibilità di passare dall’immateriale al materiale e viceversa, come si riesce a fare oggi, è una sensazione appagante e rassicurante. Ma forse a questa si aggiunge il fermento di trovarsi all’inizio di una “terza rivoluzione industriale” a cui nessun designer sa resistere, come dice Chris Anderson, direttore di Wired US. Il designer che riesce a realizzare di persona – o in un sistema molto vicino a lui – le proprie idee con una precisione produttiva pari a quella di una macchina industriale, ha un piacere assimilabile solo a quello di chi ha la possibilità di farsi realizzare qualcosa a misura di ogni suo desiderio. Primo goal.
Ancora, perché la personalizzazione non sia solo un lusso di poche élite, ma si raggiunga la personalizzazione di massa, è necessario un processo di manifattura digitale che funzioni.
Ossia che ci sia un dialogo frequente e ravvicinato tra competenze hard e programmazioni soft. Per i designer questo significa maneggiare i linguaggi digitali, ma anche apprendere le pratiche artigianali per la prototyping. Questo spesso significa riattivare un dialogo intergenerazionale, che con i tempi che corrono è un fenomeno interessante sul piano del lavoro e del reintegro. Soprattutto laddove sempre più startup innovative coinvolgono giovani nerd e artigiani e operai in pre-pensionamento. Secondo goal.
Le modalità di “making” sono di natura open source e free shared: nel mondo dei designer significa mettere in discussione definitivamente la vena autoriale dei creativi, sanarli dal copyright (che nel caso della condivisione delle idee funziona all’opposto rispetto ai prodotti), e favorire la crescita di opere aperte, di open content, di processi inclusivi, di progetti straordinariamente figli del proprio tempo anziché di genitori ingombranti ed egocentrici. Terzo goal.
L. – Credo che riuscire a tornare alla dimensione del fare e del condividere insieme i risultati (allargando attraverso la rete le potenziali innovazioni e modifiche) sia uno dei risultati più interessanti del design contemporaneo con uno strano effetto di strabismo storiografico. Da una parte il design torna ad alcune delle sue matrici originarie della fine del XIX secolo (la necessità di calibrare artigianato e macchina; l’idea che il creatore si perde nel collettivo; il principio di uso e diffusione sociale del design come patrimonio comune) e, dall’altra, le comunità attuali non sono più limitate a un territorio, lingua o regione definita, ma si aprono al mondo riflettendo community instabili, variabili, aperte e capaci di mettere al centro solamente alcuni elementi chiave.
A. – Vero, la questione della tiratura è cardinale, soprattutto perché in tempi di crisi significa calibrare i numeri della produzione. La modalità del “making” diventa una risposta interessante laddove è possibile realizzare un prototyping digitale, ossia una produzione a piccola tiratura dentro un sistema di scala ampia di mercato. Quarto goal.
Insomma, dopo i Maker Fair Africa (2008-2011) e il World Wide Rome (2012) la cultura “making” è arrivata anche al Salone del Mobile di Milano nelle interpretazioni più disparate e conclamate. La proposta della Fabbrica al Contrario (FaC) rappresenta un’intuizione con buoni presupporti per una serie di ragioni: la prima, che pur nascendo dentro un’accademia (NABA) non si pone solo il problema di cosa farsene della creatività dei ventenni, ma anche di quella dei cinquantenni o sessantenni. I cosiddetti “esodati”, coloro che sono stati eiettati fuori dal mondo del lavoro anticipatamente e che hanno una conoscenza tecnica ancora straordinariamente importante. In altre parole, si occupa di usare tutti gli strumenti della creatività, reale e virtuale, non per aggiungere al mercato altre 12 sedie e 20 lampade, ma per inventare nuove forme di lavoro e operare una staffetta di saperi tra generazioni.
Un’interpretazione più filologica è stata invece quella sintetizzata dalla mostra del magazine Domus: “The Future in the Making”. Questa consisteva in un laboratorio dove imparare a muoversi in modalità open source: gli oggetti venivano creati e prodotti in diretta dai presenti. La vera novità per il design consisteva nella sezione Open Design Archipelago, dove emergeva la consistenza del fenomeno crowdfunding, ossia il finanziamento di progetti di design attraverso donazioni di utenti internet. Goal, goal, goal.
Pensare che il design venga finanziato dal basso è una rivoluzione incredibile, soprattutto in Italia. Infatti il nostro paese, lungi dall’approccio socialdemocratico dei Paesi Nordici, ha sempre trattato il design come prodotto per pochi (se qualcuno vuole obiettare su questa mia analisi, posso girargli i listini prezzi dei grandi brand italiani). Ma non è del passato prossimo che voglio discutere, bensì del futuro imminente che mi pare ,se non altro, migliore nell’offrire possibilità.
Un altro progetto degno di nota è stato Making Together di Logotel (sottotitolo Riflettere sulla collaborazione attraverso il design). Tanto per capirsi, Logotel è quella service design company che ha curato “WEconomy, l’economia riparte dal Noi”, un testo che si occupava del “talento collettivo” in risposta alla creatività egocentrica. Il libro, che vale la pena scaricare e implementare è ovviamente un progetto open. Torniamo al Salone: il progetto consisteva in un’occasione per riflettere sulle varie forme di collaborazione. “Il fare insieme con artigianalità, materialità e immaterialità, concretezza e visione, amore del dettaglio, è oggi, in una realtà frammentata, accelerata e contraddittoria, l’atto rivoluzionario per eccellenza”.
L. – Altro elemento da non sottovalutare riguarda la capacità del design di superare i confini tradizionali che lo stavano facendo morire d’asfissia per dare sostanza a imprenditorialità nuove, a forme innovative in cui la parola “design” verrà messa in discussione. Il motivo? Farla rinascere con caratteri e strumenti differenti ma, spero, più significativi.
A. – Questo è un po’ il punto. Il fatto che tutti questi progetti di “making” si trovassero al Fuori Salone, ossia la parte visionaria del design – e non nella parte produttiva del Salone, ossia in Fiera – mi ha fatto pensare che questo sia solo l’inizio. Per ora questi fenomeni sembrano essere avanguardia in grado di incidere sul quotidiano di pochi, ma è anche vero che, sempre più, sono in grado di agire sull’immaginario di molti. E questo non è affatto poco per decretare un buon inizio. Credo che questo processo sia sano e virtuoso, perché riavvicina il design alla vita reale, lo rende uno strumento creativo a disposizione di tutti per l’invenzione, la creazione e forse anche la scelta di scenari migliori.
Che ruolo avranno i designer in tutto questo? Alcuni continueranno a progettare come hanno fatto finora. Altri useranno le idee che arrivano dalla rete come ingredienti dei propri progetti in un mercato globale. Altri ancora usciranno dalla sfera creativa personale e useranno la propria conoscenza per insegnare, supportare e coordinare chiunque voglia costruirsi i propri pezzi di mondo.
Milano, 28 aprile 2012ANNA BARBARA E LUCA MOLINARI