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La scoperta delle macchie solari compie 400 anni

scienze

L’ astronomia può essere una scienza che procede a ritmo incalzante, con diversi gruppi che si contendono gli strumenti per cogliere l’attimo fuggente che permetterà di capire meglio un fenomeno celeste. Oppure può essere una scienza lenta dove quello che conta è la metodica raccolta di serie lunghissime di dati.

Quando viene rivelato un lampo gamma, per esempio, si scatena una frenesia a livello mondiale: gli astrofisici coinvolti si gettano sui telescopi più grandi e potenti per scoprire la sorgente della radiazione.

Chi studia l’attività del Sole, invece, procede in modo molto più paziente e metodico. Ogni giorno bisogna controllare lo stato del Sole: è un esercizio che viene portato avanti da quattro secoli, da quando, nel 1613, Galileo Galilei spiazzò i filosofi ( e gli astronomi) aristotelici scoprendo le macchie solari (e pubblicando “Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari”).

Come se non bastasse, l’osservazione ripetuta, un giorno dopo l’altro, del sole fece vedere che le macchie si muovono (per una animazione dei disegni di Galileo, clicca qui) , segno inequivocabile della rotazione del sole.

Con il suo rudimentale cannocchiale, Galileo aveva trasformato una sfera perfetta e incorruttibile in una palla macchiata che ruota. Benché non si sapesse a cosa fossero dovute le macchie, molto rapidamente si iniziò a contarle in modo sistematico registrando giornalmente il loro numero, la loro posizione, le loro dimensioni e magari facendone dei disegni. Così abbiamo un patrimonio prezioso di informazioni che adesso, grazie ai progressi fatti nella comprensione del funzionamento del sole, possiamo sfruttare.

400 anni di osservazioni ci hanno dimostrato che il numero delle macchie varia in modo periodico passando da momenti di quiete, con la superficie del Sole praticamente senza macchie, a momenti di grande attività, con decine di macchie contemporaneamente presenti.

L’intervallo che intercorre tra due minimi ( o due massimi) è di circa 11 anni. E’ quello che chiamiamo ciclo solare.L’esperienza ci ha dimostrato che nessun ciclo solare è uguale a quelli che lo hanno preceduto o che lo seguiranno.

Adesso ci stiamo avviando al massimo di attività, ma il ciclo attuale sembra fiacco.

Poco male, una forte attività solare potrebbe essere preoccupante non tanto per noi, homines sapientes, che conviviamo felicemente con la nostra stella dalla notte dei tempi, ma per le nostri propaggini tecnologiche che, invece, hanno molto da temere.

Per chiarire quale sia il nesso tra le macchie solari e possibili failures tecnologiche, vediamo di approfondire il fenomeno macchia solare.

Negli ultimi 50 anni abbiamo capito come funziona la nostra stella e, insieme a lei, tutte le altre.

Ogni secondo nel nucleo del Sole 700 milioni di tonnellate di atomi di Idrogeno (dei semplici protoni) vengono trasformati in Elio, l’elemento più semplice, dopo l’idrogeno, fatto da due protoni e due neutroni. E’ il primo passo della nucleosintesi stellare, il processo responsabile della formazioni di tutti gli elementi che conosciamo. E’ una specie di gioco d’incastro con i protoni che si fondono ad altri protoni, o ad altri atomi appena formati, per dare origine elementi sempre più complessi: così le stelle producono Carbonio, Ossigeno, Azoto, e così via.

La nucleosintesi è la sorgente di energia che tiene accese le stelle. L’Elio pesa poco meno dei quattro protoni di partenza e, grazie all’equivalenza tra massa ed energia (la famosa equazione di Einstein E=mc2), la massa persa nella reazione diventa energia. Si tratta di fotoni energetici che devono propagarsi in un mezzo caldissimo e densissimo e non possono procedere in linea retta, ma avanzano a caso con un percorso a zig zag. E’ un viaggio lungo e tortuoso che richiede milioni di anni, per coprire il raggio del Sole, poco meno di 1 milione di km. Giunti in prossimità della superficie, però, i fotoni possono trovare dei blocchi che impediscono loro di passare. Sono dei veri e propri tappi magnetici che deviano l’energia che proviene dall’interno impedendo di raggiungere la superficie. Le zone in cui l’energia non arriva risultano più fredde, quindi più scure rispetto al resto. Intorno alle macchie, il campo magnetico si raggomitola e si contorce. E’ l’astronomia spaziale che ci permette di seguire queste drammatiche sequenze: il campo magnetico viene “tirato” fino a quando le linee di forza non ce la fanno più e, come un elastico che si rompe, escono dalla superficie del sole, formando spettacolari archi magnetici.

Nel processo vengono anche accelerate particelle che poi il sole scaglia nello spazio interplanetario: sono le coronal mass ejection (per una scelta delle migliori del 2012, clicca qui) , che in poco più di un giorno possono raggiungere la terra causando, per la maggior parte dei casi, solo spettacolari aurore boreali ( o australi).

Non tutte le CME raggiungono la terra. Il moto delle particelle solari nello spazio interplanetario segue percorsi che descrivono larghe spirali e sono controllati, ancora un volta, dal campo magnetico. Perché una CME arrivi a colpire la terra occorre che le particelle viaggino su un’autostrada magnetica diretta verso la Terra, una circostanza che capita abbastanza di rado. Quando i satelliti che studiano il Sole come SOHO, SDO oppure Stereo rivelano una CME, noi possiamo prevedere se (e quando) lo sbuffo di particelle ci colpirà. Potete dare una mano anche voi partecipando a solar stormwatch, un progetto di Citizen science che usa proprio i dati di questi satelliti. I fotoni che ci fanno “vedere” l’esplosione viaggiano alla velocità delle luce e ci mettono 8 minuti a coprire i 150 milioni di km che separano la Terra dal Sole, le particelle vanno un pochino più lente e ci mettono qualche giorno.

Spaceweather.com oppure la bellissima APP 3DSun ci tengono costantemente aggiornati dandoci informazione sullo space weather, il tempo nello spazio. L’11 aprile, per esempio, è arrivata un’allerta, a seguito di un brillamento intenso: era prevedibile che la CME prodotta intercettasse la Terra sabato 13 aprile.

Nel caso si preveda la collisione delle particelle con la Terra ci dobbiamo preoccupare? In generale no, perché possiamo contare sullo scudo eccezionale offerto dal nostro campo magnetico. E’ proprio quello che fa orientare la bussola, ma è grazie alla sua presenza se la vita ha potuto svilupparsi sulla terra, al sicuro delle radiazioni ionizzanti che, invece, sterilizzano senza pietà il suolo di Marte.

I satelliti ce lo fanno vedere l’eroico campo magnetico che, colpito da questi schiaffi di energia, prima arretra e poi ondeggia vistosamente, prima di riprendersi e tornare in uno stato quasi normale. Nella maggior parte dei casi, solo una piccola parte delle particelle riescono a passare lo scudo, infilandosi nei poli del campo magnetico della terra, le uniche piccole aperture disponibili. Così hanno origine le aurore boreali, le spettacolari luci danzanti del grande nord. L’allerta del 13 aprile è proprio per i cacciatori di aurore boreali. Alcune volte, però, quando il flusso di particelle è particolarmente abbondante, le conseguenze possono essere molto meno piacevoli. Intendiamoci, nessun essere umano è mai morto per un evento solare. E’ la dipendenza dalla tecnologia che abbiamo sviluppato negli ultimi decenni a renderci sempre più vulnerabili.

Le particelle solari possono disturbare, e qualche volta danneggiare in modo irreparabile, i satelliti in orbita. Le stesse particelle, una volta penetrate nell’atmosfera possono causare correnti parassite lungo le linee di alta tensione, scaldando fino a fondere i magneti dei trasformatori che sono alla base del sistema di distribuzione dell’energia elettrica. Un trasformatore inutilizzabile ferma la distribuzione e il black out è inevitabile.

Non sono cose che succedono tutti i giorni, ma non sono neanche così rare: nel 1989 il sistema di distribuzione dell’energia elettrica in Quebec è stato messo KO da un evento solare intenso, ma certo non mostruoso come, invece, fu quello registrato il 1 settembre 1859. La supertempesta magnetica danneggiò le linee del telegrafo e fece anche prendere la scossa a molti operatori. La aurore boreali vennero viste fino in Florida. Anche se resta vero che le regioni più vicino ai poli sono le più colpite, la rete di distribuzione dell’energia elettrica è così interconnessa che un problema in Canada può avere conseguenze su gran parte degli Stati Uniti. L’eventualità di un black out prolungato a New York oppure di seri problemi con i satelliti GPS, che forniscono la temporizzazione di ogni transazione finanziaria sul pianeta, farebbero saltare il mercato a livello mondiale. Gli analisti sono unanimi nel sostenere che gli effetti economici di una tempesta solare particolarmente intensa sarebbero dell’ordine del trilione di dollari. Meglio, molto meglio, cercare di prevenire, irrobustendo i trasformatori e migliorando la rete di monitoraggio del sole per riuscire a individuare le CME più pericolose. In caso di pericolo, meglio ricorrere ad un black out preventivo, per lasciare passare la sberla di energia a impianti spenti ed evitare danni ai trasformatori.

Nessuno vuole creare inutili allarmismi: non sappiamo quando e se ci sarà una grande tempesta solare, ma sappiamo che, presto o tardi, arriverà ed è meglio essere preparati. E’ un evento eccezionale, tipo quello del 1859, che preoccupa, dal momento che sono gli eventi estremi quelli che possono mettere a dura prova le nostre migliori misure preventive.

Pensiamo allo tsunami che ha devastato il Giappone, un paese dove la prevenzione è presa molto sul serio. Molte località costiere, così come la centrale nucleare di Fukushima, avevano barriere progettate per resistere a tsunami paragonabili a quelli più forti registrati nella regione. La furia dell’onda dell’11 marzo 2011 li ha resi inefficaci, sorpassati dall’evento eccezionale. E ricordiamoci anche di Sandy, che ha messo in ginocchio NY anche grazie alla sfortunata combinazione del tidal surge dovuto all’uragano con un’alta marea particolarmente alta, dovuta alla Luna piena.

Oggi più che mai, sopravvive chi si premunisce e progetta i sistemi “sensibili” tenendo conto delle peggiori condizioni che è ragionevole aspettarsi. Questo non significa essere al riparo da tutto: eventi eccezionalmente violenti, ma estremamente rari, potranno sempre fregarci. Tuttavia, avere fatto dei piani sarà servito a chiarirsi le idee, anche se, al momento buono, i piani saranno sicuramente da buttare. A questo proposito, vale sempre l’insegnamento di Dwight D. Eisenhower “In preparing for battle I have always found that plans are useless, but planning is indispensable”.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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