La sharing economy è morta, viva la sharing economy

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Qualche giorno fa un noto giornalista di un importante quotidiano firmava un pezzo che intitola “Quel grande malinteso della sharing economy”. Due brevi colonne che spiegavano con una certa dose di sicurezza perché la sharing economy era fallita. Non rimandando a studi, ricerche o altro genere di approfondimenti, più che un’analisi, l’articolo sembrava offrire una notizia, quella che adesso è di moda dare: “Attenzione quello che credevamo buono invece è cattivo”. Sta andando così negli ultimi tempi. Lo sharing-scetticismo è diventato mainstream. È la parabola che sembrano dover percorrere tutte le innovazioni che si rispettino, ma in questi casi c’è sempre il rischio che questo “scontento pop” si trasformi in una dinamica da stadio, perdendo il focus sulla proposizione di una soluzione o di un’alternativa.

È indubbio che la narrazione iniziale che accompagnava la sharing economy è messa a dura prova dalla rapidissima crescita e finanziarizzazione delle grandi piattaforme. I tre benefici promessi dalla sharing economyridistribuzione delle ricchezze, salvaguardia dell’ambiente e maggiore socialità – sono ancora da dimostrare, mentre è ormai abbastanza sicuro che le opportunità di condividere beni si stia trasformando, per alcuni, in vere e proprie occasioni di lavoro sottopagate e non garantite.

Si dimentica però che il modello di servizio offerto dalla sharing economy produce moltissime esperienze che stanno indicando strade differenti in nuovi e vecchi mercati.

Si pensi, per esempio, alle monete complementari, alle banche del tempo, alle piattaforme culturali, ai servizi che propongono di recuperare cibo o risorse in eccedenza, a quelli per condividere la badante o la babysitter, o, ancora, quelle che propongono di mettere in contatto anziani e giovani di quartiere, disabili e aziende.

Nuovi servizi per nuovi bisogni che, tuttavia, non riescono a emergere.

In Italia ci sono 186 piattaforme collaborative, divise in 13 diversi settori.

Questo è quanto emerge da una ricerca appena pubblicata da Collaboriamo.org e dall’Università Cattolica del Sacro Cuore. Tra i settori in sui sono state divise, spicca il crowdfunding (con 69 piattaforme attive), poi troviamo i trasporti (22 piattaforme attive), il turismo (17 di cui 8 che mettono in contatto viaggiatori e guide locali che propongono una visita alternativa del territorio), lo scambio di beni di consumo (18), i servizi alle persone (9), la cultura (9).

Sebbene alcuni di questi servizi stia crescendo e riesca a ottenere i primi numeri interessanti, il 70% delle piattaforme italiane ha meno di 10.000 utenti, che significa, in pratica, l’inattività del servizio.

La cosa si spiega facilmente con la giovane età delle imprese ma soprattutto con il fatto che l’81% degli intervistati per le piattaforme collaborative e il 65% per quelle di crowdfunding dichiara di investire i propri fondi personali.

La sharing economy che verrà

Come dunque valorizzare questa economia ancora poco significativa ma capace di intercettare nuovi bisogni? Come potenziare l’impatto sociale della sharing economy e controllare quello di mercato?L’economia collaborativa proposta dalle piccole piattaforme non è diversa da quella delle grandi. Il modello di servizio offerto (quello peer to peer) è sempre lo stesso, così come è sempre uguale l’interesse a fare profitto. La stragrande maggioranza di queste esperienze sono for profit (in Italia solo l’1% delle piattaforma è cooperativa), anche se le caratterizza una chiara vocazione sociale (le piattaforme di crowdfunding, per esempio, si rivolgono più alle associazioni (74%) che alle aziende (67%), le campagne sociali sono il 34% e gran parte degli imprenditori e così via). La stessa che aveva Airbnb al suo nascere. Il modello collaborativo porta con sé una forte carica di innovazione sociale che, nelle grandi piattaforme si è spenta a causa della loro finanziarizzazione e crescita velocissima.

La principale differenza tra Airbnb, Uber e questo sottobosco di esperienze, quindi, non è nel modello o nelle intenzioni (almeno quelle iniziali), ma nel fatto che le prime beneficiano di un ecosistema che le promuove e le sostiene, mentre le seconde sono imprese individuali che combattono una battaglia in solitudine. Uber, Airbnb, Taskarabbit sono cresciute così velocemente, infatti, non solo perché sono state buone idee che hanno incontrato l’interesse del pubblico, ma soprattutto perché hanno beneficiato di un sistema – quello capitalista – composto da investitori, lobbisti, incubatori che le hanno sostenute. Un sistema che ben lungi dall’essere morto ha dimostrato di saper fiutare, intercettare il cambiamento e cavalcarne le opportunità, piegandolo ai suoi scopi.

Le imprese collaborative tra business e governance

Da qui bisogna partire se si vuole davvero provare a sostenere l’economia collaborativa. Costruire un ecosistema altrettanto efficiente, capace di indirizzare le sfide e di valorizzare la carica sociale intrinseca al modello. In campo ci sono già tante persone che stanno sperimentando e che vogliono far bene. Sharitaly, il primo convegno sull’economia collaborativa che si è svolto a Milano agli inizi di novembre, ha raccolto politici, amministratori, professori, imprenditori che in diverse parti d’Italia stanno già sperimentando. Esperienze isolate che dovrebbero essere coordinate da un unico player (le istituzioni) e valorizzate attraverso un piano strategico di intervento di lungo periodo capace di accelerare, contaminare, ricercare e diffondere.

Un piano che preveda, per esempio, di sviluppare percorsi di finanziamento che facilitino le imprese collaborative che già operano da qualche anno e che possiedono un team dedicato e risultati in crescita; che promuova anche nuove sperimentazioni, soprattutto per trovare diversi modelli di governance e di business capaci di ridistribuire in maniera più equa le ricchezze generata dagli scambi tra i pari e assicurare maggiori sicurezze e garanzie ai lavoratori; che crei luoghi di sperimentazione dedicati perché l’economia collaborativa ha delle specificità rispetto al resto delle start up che, se si mettono a sistema, ne accelerano la crescita. Un programma, inoltre, che faciliti la contaminazione fra imprese collaborative e altri interlocutori legittimandone l’impegno magari attraverso semplificazioni (sgravi fiscali?).

Grandi aziende o terzo settore potrebbero trovare nel modello collaborativo un modo nuovo per rinnovare i propri servizi.

In cambio potrebbero offrire sostegno e cultura (soprattutto le seconde), mettendo a disposizione comunità di utenti che sarebbero vitali per l’economia collaborativa italiana. Il tutto dovrebbe essere accompagnato da una continua ricerca e misurazione dei risultati. Siamo ancora molto lontani dal possedere consapevolezza sugli impatti dell’economia collaborativa ma ci sono al momento moltissimi professori e studenti che si stanno avvicinando al tema, perché non provare a coordinarli? Infine un piano che si ponga l’obiettivo di arrivare anche a chi non ha dimestichezza con i media digitali. I principali beneficiari dell’economia collaborativa potrebbero essere le persone più disagiate eppure sono i grandi esclusi. È necessario un piano di comunicazione e di formazione capace di lavorare sulle opportunità al cambiamento, di rafforzare il senso di sé e degli altri.

Insomma non c’è cambiamento se non ci sono le forze che lo sostengono. Le imprese collaborative non possono fare più di quello che stanno già facendo investendo i propri risparmi. Se non si prova a sostenere il loro sforzo, l’economia collaborativa resterà appannaggio delle grandi piattaforme che sempre di più arriveranno in Italia trasformando, forse, alcune nostre abitudini, ma non sicuramente il contesto e il modo in cui viviamo. E allora sì che si potrà parlare di grande malinteso.

MARTA MAINIERI

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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