La solitudine dell’uomo iperconnesso: Quale futuro?

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L’umanità rattrappita dell’iperconnessione ha perso l’usanza di incontrarsi: è «contrario allo spirito del tempo», nota Edward Morgan Forster in quella che, a tutti gli effetti, è una visione – e una condanna – del presente scritta oltre cent’anni fa, nel 1909.

La Macchina si ferma è questo, più che una semplice anti-utopia in cui si consuma lo scontro tra l’umano e l’artificiale, tra il comando di sé e la dittatura della tecnica. Non te lo aspetti dall’autore di Camera con vista, Casa Howard e Passaggio in India. Ma il racconto, abbandonato all’oblio editoriale prima della recente ristampa per i tipi di Portaparole (pp. 156, 16 euro), inizia così.

C’è una donna chiusa in una stanza esagonale, «come la cella di un’ape». Da cui non ha più bisogno di uscire.

Il suo corpo è rattrappito dalla mancanza di moto: una «pappa biancastra», una «massa di carne infagottata» di un metro e mezzo. Chatta, diremmo oggi, telelavora. È sempre in quella stanza.

I suoi gesti, i pensieri, rimandano alle questioni della nostra era. Soprattutto, fanno immaginare che Forster abbia già in mente la rete, Internet, o qualcosa di molto simile. Quando scrive: «Sotto i mari, sotto le radici delle montagne, scorrevano i cavi tramite i quali (gli uomini, ndr) vedevano e sentivano» si percepisce l’eco delle pagine di Tubes, in cui il giornalista di Wired, Andrew Blum, racconta la posa delle connessioni transoceaniche.

O quelle di Automate This, dove Christopher Steiner disegna la mappa della terra squarciata per pochi millisecondi di vantaggio che si traducono, nel Leviatano del trading automatico, in milioni di dollari di profitto.

Forster racconta i dettagli più vividi del nostro 2013 quando la protagonista passa da una comunicazione all’altra, e prova insofferenza perché «passarono ben quindici secondi». Una temporalità che, annotata all’alba del Ventesimo secolo, ha del visionario. E che oggi si accompagna alla sensazione che ben conosciamo, tra l’urgenza e la rabbia, per quella pagina che non si carica, per quel messaggio che non arriva, anche se solo per un istante. Quella sensazione che l’autore approssima dicendo sia «peggio della solitudine», senza andare troppo lontano dal vero.

Ma è nella descrizione dei rapporti interpersonali, e di ciò che sono diventati nello scenario post-apocalittico del racconto, che l’autore sembra addirittura prevedere l’avvento di Facebook e degli amici che diventano ‘amici’. Eccessivo? Si leggano questi brani: «La stanza si riempì del suono di campanelli e tubi parlanti.

Era buono il nuovo cibo? Lo consigliava? Aveva avuto qualche idea di recente?». Sembrano le notifiche di Facebook. Sembra Facebook che ti chiede: «Cosa succede, Fabio?», «Scrivi qualcosa».

Prosegue Forster: «Era disposta ad ascoltare le idee altrui? Poteva fissare un appuntamento quanto prima per visitare i nidi d’infanzia pubblici? Diciamo fra un mese esatto? Alla maggior parte di queste domande Vashti rispose con irritazione, una caratteristica in costante crescita in quell’epoca affannata». È una contemporaneità che ha le sfumature degli scettici, ma di oggi più che di allora: «Conosceva svariate migliaia di persone», scrive di Vashni, figura centrale nella narrazione, che persone in carne e ossa non ne vede da tempo immemore.

Eppure «per molti versi i rapporti umani erano progrediti enormemente», prosegue, nonostante si riducano – come spesso oggi – a premere dei «pulsanti». Gli stessi con cui Vashni può ordinare del cibo, riprodurre musica e letteratura (entrambe automatizzate, altro tema di profonda attualità), essere autosufficiente al punto che «la stanza, pur non contenendo nulla, era in contatto con tutto ciò che le era più caro al mondo». E che il «desiderio di guardare le cose direttamente», un po’ alla volta, svanisce, diviene addirittura «inquietante».

È un culto della mediazione tra fatto ed esperienza che, suggerisce Forster nelle pagine più politicamente significative, fa il gioco di chi controlla e reprime. Come se il regime del tempo reale comportasse la disintegrazione della cronaca e della storia, prima ancora che della riflessione e dell’approfondimento.

Non tramite una estenuante riscrittura, come in Orwell, ma con una ben più subdola e insidiosa manipolazione del modo stesso in cui si apprendono le cose del mondo. «Voi che mi ascoltate potete giudicare la Rivoluzione Francese meglio di me», spiega, dando voce agli intellettuali di quell’epoca immaginaria eppure così vivida. Che insegnano si studi ciò che x pensa che y pensi che z pensi di ciò che è accaduto in quei giorni del 1789: non i fatti, separati quanto possibile dalle opinioni.

Non una cura maniacale delle fonti, ma la loro relativizzazione, il loro equivalersi tutte, e subito. «I vostri discendenti potranno farlo meglio di voi perché impareranno ciò che voi pensate che io penso, e così la catena si arricchirà di un ulteriore intermediario. E col tempo, disse alzando la voce, verrà una generazione che andrà oltre i fatti, oltre le impressioni, una generazione del tutto incolore». O di solo colore, di soli editorialisti da 140 caratteri, di soli partigiani. Fino all’avvento di una generazione «che vedrà la Rivoluzione Francese né come è avvenuta, né come avrebbe voluto che fosse avvenuta, ma come sarebbe avvenuta se avesse avuto luogo ai tempi della Macchina». Ovvero, come se il referente ultimo di ogni catena di ragionamenti fosse quel potere, divenuto millenario, e la sua logica.

Così le idee diventano nulla, l’originalità sfuma nel rimasticamento di seconda, terza, quarta mano che se Forster non riesce a immaginare nella sua accezione più nobile (quella dell’hacking per il free software, per esempio), sembra presagire l’infinita mediocrità degli spezzoni memificati, moltiplicati e rigurgitati su YouTube.

Nella radicale inversione del quotidiano, nella satira del reale che sempre è il cuore della distopia, si giunge alla madre che evita di stringere la mano al figlio per buona educazione.

Spalancando la porta a un pensiero anch’esso caricaturale, ma istruttivo: che si finisca per conversare con lo sguardo sullo smartphone per rispetto del prossimo, senza suscitare fastidio ma approvazione. Non eccezione, ma regola. Così che quando il figlio chiede alla madre di vedersi davvero, non attraverso la «Macchina», questa risponde sostenendo come l’idea che l’essenza del contatto risieda nel guardarsi negli occhi, nel toccarsi, sia niente più che una «filosofia screditata», sostituita dall’approssimazione inespressiva del rapporto tra avatar.

Si potrebbe poi infierire sugli esegeti del progresso sempre e comunque buono e sempre e comunque progresso. Forster li mette nel novero di una umanità che, dopo aver eliminato la religione, fa del suo sogno di iper-razionalismo una nuova, e altrettanto potente, fonte di dogmi e obbedienza. Il tecnoutopista forsteriano non venera Internet, ma il «Libro». Cioè una sorta di Bibbia per l’ascetismo digitale, un decalogo che si incarna nelle regole della Macchina, nuovi e indiscutibili comandamenti di una divinità vendicativa quanto il Dio del Vecchio Testamento: «Per l’atavismo la Macchina non può avere alcuna pietà». E del resto, gli uomini stessi vi si sacrificano. Finita la descrizione, e la sorpresa per il suo essere al contempo così dimenticata e attuale, resta l’inquietudine per un monito, quello a restare umani di fronte alla tentazione di abbandonarsi alle comodità dell’iperconnessione, cui non sempre sembriamo capaci di porgere l’orecchio. Soprattutto, resta il pensiero – eccessivo, ma di nuovo, formativo – che le profezie di sventura dei mondi immaginari stiano diventando, un secolo più tardi, realtà.

Se perfino un paladino del libero web come Julian Assange nel suo ultimo libro, Cypherpunks, scrive che «Internet, il nostro più grande strumento di emancipazione, si è trasformato nel più pericoloso facilitatore del totalitarismo che abbiamo mai visto», e ancora, che «Internet è una minaccia per la civiltà umana», viene il dubbio che non sia soltanto il frutto di immaginazione, o di ossessione.

E che tra la trasformazione della rete in un ideale platonico capace di sola salvezza e la sua, altrettanto caricaturale, raffigurazione come strumento di puro dominio, sia giunto davvero il momento di fermarci a riflettere, abbracciare la prudenza. E ritornare a quel 1909, dove tutto era ancora in potenza.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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