in

La sorveglianza digitale riprende i 12 colpi sparati a Times Square

innovaizone

Immaginate due città, scrive lo scienziato e autore di fantascienza David Brin nel saggio The Transparent Society, anno 1998. Nella prima le telecamere di sorveglianza, a ogni angolo, registrano i comportamenti dei cittadini per le strade e trasmettono le immagini ottenute agli uffici della polizia. Nella seconda, al contrario, le registrazioni provengono dagli uffici della polizia e finiscono per le strade, nelle mani dei cittadini.

«A volte», suggerisce Brin, valutando il peso di quella rivoluzione copernicana, «i cittadini della città numero due sono tentati dalla nostalgia per i tempi andati, prima che ci fossero tante telecamere, o che le televisioni invadessero le loro case, o prima del telefono o dell’automobile. Ma perlopiù», prosegue, «gli abitanti di quella città sanno che quei tempi sono andati, e non torneranno.

Più di ogni altra, una cosa rende la vita sopportabile: la certezza che ogni individuo sappia cosa sta accadendo, e abbia diritto di parola su ciò che dovrà accadere». Soprattutto, che abbia «gli stessi diritti di un miliardario o del capo della polizia».

Cosa ci insegna questo breve cenno al saggio di Brin? Innanzitutto, che ci sono due usi per la sorveglianza diffusa. Uno è quello che testimoniamo ogni giorno, fuori e dentro la Rete. È l’occhio che tutto vede, attraversando le barriere della comunicazione privata, anche online, come l’occhio del malvagio Sauron, nel Signore degli Anelli, attraversa le montagne. Ma è anche e soprattutto l’occhio del Panopticon, la casa d’ispezione ideata da Jeremy Bentham alla fine del XVIII secolo in cui i detenuti sono sempre visibili, tenuti a bada dalla semplice minaccia dello sguardo del carceriere.

L’altro incarna l’idea di rovesciare quello sguardo, e puntarlo sui controllori: «Per ogni osservato», direbbe il Dürrenmatt de L’Incarico, «ci vuole un osservatore, il quale, se viene a sua volta osservato da quell’altra persona osservata, diventa egli stesso un osservato».

Ma è sul secondo insegnamento, che ci si vuole qui soffermare: e cioè che, proprio come i cittadini della città numero due, dovremmo vincere le tentazioni conservatrici, e metterci al lavoro affinché la tecnologia sia utilizzata non per mantenere o aumentare vecchie disuguaglianze – su tutte, quella tra soggetto e oggetto del potere – ma per eliminarle. Brin suggerisce a titolo di esempio la diversa posizione del comune cittadino e del capo della polizia. Ed è proprio rispetto a questa disparità che la sousveillance, o sorveglianza dal basso, può essere applicata con successo e senza cedere all’ideale, solo in apparenza desiderabile, di una società totalmente trasparente.

Dicono le statistiche che negli Stati Uniti ogni anno il 6,6% degli agenti di polizia sono oggetto di lamentele per motivi di cattiva condotta. Che i casi di police brutality sono stati circa 6000 soltanto tra aprile 2009 e giugno 2010, per un totale di 382 vittime coinvolte. Che quasi un quarto dei casi riguarda un uso sproporzionato della forza da parte dei tutori della forza dell’ordine. Ma a parte i numeri, sono i casi di cronaca a continuare a ripresentarsi dando vita a polemiche infinite (il G8 di Genova), quando non a vere e proprie rivolte (da quella a Los Angeles per il pestaggio di Rodney King agli august riots scatenati dalla morte di Mark Duggan, ucciso dalla polizia). E casi di ordinaria follia. Come quello avvenuto recentemente a Times Square, in cui un uomo di colore, avvicinato apparentemente perché fumava marijuana, è stato abbattuto con 12 colpi di pistola perché si rifiutava di consegnarsi agli agenti e brandiva un coltello.

Proprio quest’ultimo caso è particolarmente rilevante per il tema della sousveillance. L’uomo e gli agenti, infatti, si sono confrontati in un sabato pomeriggio affollato. Scappando, l’uomo ha attraversato e messo in fuga i passanti, alcuni dei quali tuttavia hanno immortalato quella scena surreale con i loro smartphone. I loro video hanno fatto il giro del mondo. Oggi molto più che al tempo di Rodney King – il cui pestaggio fu tuttavia registrato dalla videocamera di un comune cittadino – c’è chi pensa sia questa la chiave per mettere fine da un lato agli abusi di chi detiene l’esercizio legittimo della violenza, e dall’altro alle accuse indiscriminate alle autorità di abusarne.

Ma questo tipo di sorveglianza dal basso non è efficiente, perché si affida totalmente alla circostanza fortuita che il verificarsi di un caso controverso avvenga in un luogo pubblico.

O quantomeno sufficientemente frequentato dal pubblico affinché la probabilità di un video amatoriale abbastanza dettagliato non sia prossima allo zero. Non è dirimente, proprio perché non tutti i video amatoriali svelano i dettagli decisivi per attribuire le responsabilità dell’accaduto. E non è sistemico, non quanto la capacità di sorveglianza dei controllori. Se l’obiettivo è quella che il padre del wearable computing, Steve Mann, definisce equiveillance, e cioè l’equilibrio di sorveglianza dall’altro e dal basso, fare un generico affidamento sul crowdsourcing è una strategia destinata a rivelarsi fallimentare.

Si provi invece a immaginare quanto sarebbe più semplice decidere se i 12 colpi sparati contro quell’uomo a Times Square siano legittimi o meno se ciascuno degli agenti coinvolti avesse indossato una piccola videocamera capace di registrare ciò che ha visto e trasmetterlo in Rete e in un archivio appositamente tenuto da un’autorità terza. Il materiale sarebbe sempre disponibile a tutti, non solo quando si fosse fortunati abbastanza da avere delle riprese amatoriali.

I video sarebbero “ufficiali”, e sempre nel mezzo dell’azione. E non sarebbe necessario tenere il device in funzione 24 ore al giorno, né solamente durante gli orari in servizio: basterebbe fosse in grado di reagire agli stimoli corporei, e di accendersi quando indicatori come la frequenza del battito cardiaco, la sudorazione, o anche l’attività neurale dell’agente rivelassero una situazione di emergenza. A questo modo, la loro privacy sarebbe comunque intatta.

Non è fantascienza: Mann indossa tecnologie simili, dalla WearCam agli EyeTap che tanto ricordano gli occhiali in cantiere a Mountain View, da decenni. Il dispositivo si rompe? Già oggi è in grado di funzionare come una scatola nera, serbando nella sua memoria gli scatti degli ultimi momenti di vita. E se dovesse smettere di funzionare proprio durante un caso controverso, l’onere della prova dovrebbe essere in capo al poliziotto.

Certo, la proposta pecca di idealismo. E certo, anche se si volesse attuarla i problemi non mancherebbero – a partire da come tutelare l’integrità del materiale raccolto. Ma l’ambizione è giustificata dall’opportunità: il servizio reso alla società da un sito che consenta in qualunque momento di accedere alle esperienze in presa diretta degli agenti di polizia nei casi controversi sarebbe infatti immenso, e potrebbe forse iniziare a ricucire il rapporto, ovunque spezzato, tra controllanti e controllori. Negli anni delle rivolte – dal Medio Oriente alle sedi della finanza e le piazze occidentali – un imperativo, più che una provocazione.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

What do you think?

Scritto da chef

innovaizone

Ecco perché il caso Ashley Madison ci riguarda tutti (anche se non siamo iscritti)

lifestyle

Video ; Se l’Enciclica di Papa Francesco diventa un trailer epico