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La strana censura che fa chiudere gli occhi sul lato oscuro della rete

innovaizone

Non è che noi giornalisti stiamo, più o meno inconsapevolmente, censurando la censura online? La domanda si insinua, spiacevole, dopo un semplice confronto sulla diversa copertura mediatica dell’ultimo “Rapporto sulla libertà della Rete” di Freedom House. In Rete, dice Google News, ne hanno scritto in italiano solo Key4Biz – cioè un sito specializzato – e Agoravox (che peraltro, full disclosure, ha ripreso un post del sottoscritto). Non pervenuti i quotidiani cartacei che ho potuto sfogliare (tutti i principali). All’estero, invece, si va dal blog Bits del New York Times alla Fox, da The Atlantic a Tech in Asia e il pakistano The Express Tribune. Scelte editoriali, certo. Ma il dubbio resta.

E non è che non ci fossero notizie. A meno che non si ritenga una non-notizia il fatto che in 20 dei 47 Paesi esaminati la censura del Web stia crescendo.

Che in 12 di quei Paesi ciò significhi anche un maggior ricorso a tecniche di sorveglianza digitale che hanno portato a «prigione, tortura e perfino alla morte» per dissidenti politici. Che siano aumentati intimidazioni, violenze e cyber-attacchi a giornalisti e blogger. E soprattutto che «i metodi di controllo si stanno lentamente evolvendo e stanno diventando meno visibili».

Insieme alle cattive, sono sparite anche le buone notizie. Per esempio, il fatto che l’Italia – complici la caduta di Berlusconi e l’opposizione contro le ripetute proposte di legge liberticide, dal comma “ammazzablog” al decreto Fava – abbia guadagnato tre punti nella classifica di Freedom House, e sia così al sesto posto nel mondo. Oppure che, a livello globale, l’attivismo digitale sia in crescita, e abbia contribuito – difficile dire in che misura – a ottenere risultati concreti (per esempio, fermare SOPA/PIPA e ACTA).

Una svista, insomma? Può darsi. Resta allora da spiegare, tuttavia, come mai lo stesso trattamento sia stato adoperato per il documento riservato fatto trapelare da EDRI sugli ultimi sviluppi del progetto CleanIT. Uno sforzo da 400mila euro finanziato per l’80% dalla Commissione Europea in cui, a porte chiuse e con la scusa di ripulire la Rete da criminalità e terrorismo, governi e rappresentanti del settore sicurezza discutono indisturbati se sia il caso o meno di parificare i link a contenuti “terroristici” a contenuti terroristici veri e propri. L’obiettivo è quello di obbligare le compagnie che operano sul Web ad adottare la real name policy (e dunque mettere al bando l’anonimato), costringere i social media a consentire solo reali immagini dell’utente e rendere i provider responsabili di omesso controllo se qualche attività criminale dovesse sfuggire alla loro attività di sorveglianza.

Proposte «perfino più ridicole di quanto sembra», ha scritto ArsTechnica. Solo «idee molto vaghe, materia di discussione», ha replicato il leader del progetto, l’olandese But Klaasen.

Di cui, nonostante le profonde implicazioni, non c’è traccia nella stampa italiana.

Così come niente è stato scritto su ciò che è accaduto a Copenhagen tra il 10 e il 12 settembre, quando si sono riuniti i ministri delle telecomunicazioni di svariati paesi dell’Unione Europea e i lobbisti del settore. Per decidere cosa? Difficile dirlo con esattezza, dato che si tratta di un altro incontro vietato a occhi indiscreti. Ma, a quanto si capisce, anche qui si è lasciato uno spiraglio per una governance futura (la proposta dell’ ETNO, un’associazione di operatori europei delle TLC) in cui i principi cardine del libero Web come la net neutrality potrebbero diventare più difficili da implementare, e al contrario sarebbe più facile – scrive LaQuadratureduNet – procedere a tecniche di monitoraggio invasivo del traffico altrui come la deep packet inspection.

Si potrebbe proseguire su questa linea per interi paragrafi, anche solo restando alla cronaca recente: un attivista siriano è stato arrestato dalla polizia di Assad solo per avere installato una app che consente il livestreaming sul proprio iPhone. Lo sapevate? Sempre in Siria, il blogger Abu Hassan è stato bruciato vivo insieme alla sua abitazione ed è morto. Ne avete letto da qualche parte, in italiano? In Gran Bretagna si discute finalmente se non sia il caso di regolamentare il mercato dei software di sorveglianza digitale che, prodotti in loco, sono finiti invariabilmente negli ultimi anni nelle mani dei dittatori. Anche, qui, l’oblio.

Ma il punto è chiaro: per qualche ragione, sembra che non si voglia parlare del «lato oscuro» della Rete, che non lo si ritenga meritevole di approfondimento – specie televisivo, ancora oggi determinante – o che i cittadini non ne debbano essere costantemente informati. Come se Internet fosse un soggetto in grado di difendere da sé la propria libertà, e ciò non richiedesse al contrario gli umanissimi sforzi di tanti. E come se fosse un tema marginale, e non una questione legata a doppia mandata alla possibilità stessa di rinnovare il Paese, e di farlo conoscendo uno dei mezzi che dovrebbe condurre al cambiamento – il web, appunto – in tutte le sue sfaccettature, positive e meno positive. Senza abbandonarsi a nuovi luddismi né pensare che una vittoria sul web significhi «cambiare il mondo» o «cambiare per sempre la politica».

Con questo non si vuole dire che manchino del tutto la cronaca, le riflessioni, i contributi critici. Né che i giornalisti debbano tramutarsi in attivisti. Si vuole invece affermare che il tema “libertà della Rete” – che poi è la nostra, non quella di uno strumento – meriterebbe un surplus di attenzione. In particolare in un momento delicato, delicatissimo come l’attuale, in cui svariati governi – poco democratici ma potenti, dalla Cina alla Russia passando per l’India, caduta in una spirale censoria – premono per ridisegnarne le regole fondamentali di Internet in modo che difficilmente condurrebbero a maggiore innovazione e tolleranza. Beni scarsi di cui ci sarebbe un terribile bisogno per andare oltre la devastazione del panorama internazionale attuale.

Più spazio al futuro della Rete, dunque, e alle minacce all’orizzonte, in Rete, ma anche in televisione. È un invito rivolto ai colleghi giornalisti, e a me stesso naturalmente. Ma anche ai politici che nelle prossime settimane – si spera – dovranno disegnare i programmi elettorali dei partiti che verranno. Negli Stati Uniti, per la prima volta nella storia, entrambi i candidati alle presidenziali dedicano un punto del loro programma alla protezione del libero Web. Segno che il dibattito ha assunto una sua fisionomia e un suo ruolo nell’opinione pubblica. Nel 2013, in Italia, dovremmo poter dire altrettanto.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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