Mercoledì scorso Repubblica ha pubblicato un’intervista interessante di Riccardo Luna a Chris Anderson, l’autore di “Makers”. L’intervista ripropone molto di quanto scritto nel libro, con qualche indicazione utile per mettere a fuoco i tratti emergenti della rivoluzione industriale prossima ventura. Un’intervista da leggere con attenzione, soprattutto per capire che ruolo può avere l’Italia in uno scenario che sta rapidamente prendendo forma.
Per chi non ha letto Repubblica di mercoledì scorso, riassumo i passaggi fondamentali. Il digitale ormai sta entrando nei processi manifatturieri, a tutti i livelli. Il settore chiave dove guardare con attenzione, ci dice Anderson, è la robotica (settore in cui lui stesso ha investito). I maker stanno inventando una nuova generazione di robot che sfrutta in modo innovativo tutte le potenzialità della rete.
Dai droni alle lavatrici intelligenti, tutto il mondo che ci circonda sarà investito da nuova intelligenza. Certo il percorso è ancora lungo, ma i segni di crescita delle startup più innovative sono incoraggianti. E’ probabile che sarà proprio nella robotica che nascerà l’equivalente “maker” di Facebook o Google.
Il settore della robotica è sempre stato un settore interessante. L’Italia ci lavora da tempo e pure con qualche successo. Ciò detto, alcune delle proposte di Anderson lasciano qualche dubbio, soprattutto quando viene prefigurato un mondo pieno di automi/robot in grado di soddisfare le domande più bizzarre di un esercito di consumatori/hobbisti appassionati del “fai-da-te”. Lascia tutti un po’ perplessi l’immagine di un mondo in cui una nuova generazione di inventori sarà in grado di portare sul mercato robot di tutti i tipi a consumatori che, in modo più o meno creativo, stamperanno/freseranno/taglieranno con il laser tutto il possibile, dai giocattoli agli occhiali, dalle tazzine da caffè ai gioielli.
Difficile credere, almeno dalle nostre parti, a un’economia composta, da un lato, da venditori di macchine utensili e, dall’altro, da consumatori/hobbisti con la passione dei software per la modellazione 3D. Inverosimile e, per molti aspetti, nemmeno troppo interessante.
Perché non pensare all’utilizzo di queste nuove tecnologie prima di tutto come strumento per abilitare e stimolare una nuova generazione di produttori? Non che in questo scenario manchi spazio per smanettoni fai-da-te. Anzi. La passione del fare è un ottimo modo di coltivare la creatività. Chi farà davvero la differenza, tuttavia, in questa fase di cambiamento sarà una nuova leva di produttori– chiamiamoli artigiani di nuova generazione – in grado di sfruttare queste tecnologie per promuovere varietà (tanti oggetti diversi, magari personalizzati) e qualità superiore.
Questi artigiani di nuova generazione utilizzeranno le nuove tecnologie per aggirare i vincoli delle economie di scala e sfrutteranno la rete per proporsi al mercato.
Questo scenario all’italiana qualche vantaggio ce l’ha. In un mondo popolato semplicemente da hobbisti con stampante 3d a domicilio, il rischio di generare una miriade di oggetti “usa e getta” è piuttosto elevato. Corriamo il pericolo di produrre un sacco di gadget (cover di iPhone, portachiavette usb, braccialetti, etc) senza davvero incidere sull’economia che conta. Certo, i produttori di stampanti 3D faranno gran festa, ma se questo fosse l’esito della rivoluzione in corso la parola stessa “rivoluzione” sarebbe abusata. Più interessante immaginare, invece, uno scenario popolato da artigiani di nuova generazione che sfruttano le nuove tecnologie della manifattura digitale come fattore abilitante per produrre oggetti innovativi, mescolando materiali diversi, personalizzando il prodotto sulla base delle richieste di singoli clienti, adattandoli per renderli più belli, più funzionali e più durevoli rispetto al passato. Un mondo di oggetti che vogliamo tenere con noi e manutenere con cura.
E’ proprio in questo scenario che ritroviamo l’attualità di mestieri che oggi diamo per persi: gli artigiani del futuro hanno bisogno di mettere insieme tecnologia e tradizione per dare senso e valore economico a prodotti altrimenti facilmente replicabili. Il saper fare della tradizione non sarà salvato dalla mano benevolente di uno stato sociale reso ricco dalla fiscalità legata a pochi e (raramente) generosi contributori. Al contrario, questo saper fare tradizionale rischia di essere uno degli ingredienti essenziali per dare qualità a prodotti innovativi, ancorandoli il tutto a un orizzonte di senso.
La prova del nove della percorribilità di questo scenario la suggerisce lo stesso Anderson quando ci invita a ragionare sul futuro dell’agricoltura. L’agricoltura – questo è certo – è stato uno dei settori che negli ultimi vent’anni ha conosciuto più di altri l’impatto di quella rivoluzione che chiamiamo “Internet delle cose”: satelliti (ora droni low cost) monitorano i parametri del terreno, osservano lo stato delle coltivazioni e inviano segnali a trattori intelligenti che limitano o abbondano l’utilizzo di sementi e concimi sulla base delle indicazioni ricevute “dall’alto”.
Questo prologo di rivoluzione, lungi dal banalizzare il lavoro dell’agricoltore, ha messo in moto strategie innovative. In Italia più che altrove agricoltori di nuova generazione hanno avviato una rivoluzione che ha messo in gioco cultura, passione, uso dei media, economia e ovviamente tecnologia per creare un mondo popolato da una nuova varietà di prodotti. In alcuni casi, queste filiere si sono organizzate attorno ai nuovi poli del made in Italy (è il caso di Eataly), in altri hanno optato per i mercati locali a km 0. Un’agricoltura più intelligente – è questo che ci dice il caso italiano – è un’agricoltura che convince la domanda ad attribuire un nuovo valore alla varietà. E’ questo il percorso che l’Italia ha intrapreso da tempo e che merita di essere raccontata al mondo. E’ questa la rivoluzione a cui conviene guardare anche per la nostra manifattura.