Come dovremmo interpretare la Web tax? Come una legge che garantisce più equità fiscale o un provvedimento che rappresenta una disfatta per il digitale nel nostro paese? Probabilmente nulla di tutto questo. E’ una norma che mira ad introdurre una serie di inadempienze a chi si avvicina o lavora con la rete.
Ed è soltanto l’ennesimo effetto di una burocrazia criminale che, nell’ottica di una data parità di trattamento, avvilisce chi lavora veramente. La sua difficile approvazione venerdì 13 dicembre, e l’ulteriore modifica la notte del 18 dicembre scorso su spinta del neo-segretario Pd, è successiva ad una blanda discussione tra googoliani e digitalizzatori da una parte, ed anti-multinazionali dall’altra. Evidenzia la leggerezza nell’affrontare una tematica più importante di ciò che hanno cercato di trasmetterci, un qualcosa che va al di là dei nostri confini, che riguarda processi di globalizzazione ed internazionalizzazione e che, in realtà, mette in mostra soltanto le storture fiscali ed amministrative del nostro sistema paese.
La realtà ci dice che la piccola e media imprenditoria, che produce le quote più importanti del nostro PIL, utilizza poco e male gli strumenti web ed il commercio elettronico. Cifre ridicole rispetto ai paesi anglosassoni. Tale sistema d’imprese, estremamente diffuse, ha la necessità che siano attivate politiche di sviluppo dei mezzi digitali a supporto delle loro attività e del loro posizionamento nei mercati.
Occorre dunque una profonda riflessione in merito, perché il tema è troppo importante per poterlo concludere in così breve tempo (e con tale faciloneria). Serve una strutturazione dell’impianto normativo sul digitale che tenga conto delle direttive europee e ovviamente delle esigenze e peculiarità italiane.
Non siamo d’accordo sulla web tax. Per una questione di principio che va al di là dell’equità fiscale.
Far pagare le tasse alle internet company in base al fatturato che fanno in ogni singolo paese vuol dire esprimere una volontà punitiva nei loro confronti.
Necessariamente investirebbero meno nei paesi dove è più elevata la pressione fiscale e gli effetti della burocrazia più gravosi. Mentre sono proprio quei paesi che hanno la necessità di fornire alla loro produzione quel valore aggiunto che il web ed i servizi digitali a tutto tondo (dal commercio elettronico, alla pubblicità, ai banali server residenti in paesi terzi) riescono oggi a fornire in una società sempre più globalizzata e rispondente a scelte condivise e socializzate.
Oltre a questo bisogna ricordare che l’economia digitale in Italia è in costante crescita. Oggi vale il 3,1% del PIL nazionale.
E che a sfoltire l’elevatissimo tasso di disoccupazione giovanile è proprio questo mondo che contribuisce in maniera forte creando posti di lavoro ed opportunità ad imprese e startup. Ancora nella sua ultima versione questa norma va a colpire l’online advertising senza considerare che sono migliaia le aziende e agenzie, anche nostre associate, che si vedrebbero sfuggire un mercato importante del loro business. Tante, la maggior parte, sarebbero costrette a chiudere se soltanto Google, un nome a caso, decidesse di non avviare una partita IVA italiana.
E se Google decidesse, a suo discapito forse, di non intervenire in Italia per lo stesso principio di equità che ha mosso il nostro Governo, e quindi non sottoporsi a disparità di trattamento tra paesi dove ha deciso di operare?
Le nostre imprese hanno un assoluto bisogno di andare in rete per competere sui mercati internazionali. Per i micro imprenditori gli strumenti digitali stanno diventando fondamentali per internazionalizzare senza sconvolgere la propria natura aziendale, senza dover fare investimenti ingenti, senza dover mettere in piedi strutture commerciali ad hoc pensate.
In un momento in cui la cultura digitale in questo paese è ancora marginale, soprattutto se comparata al resto dei paesi europei, ma non solo, in un momento in cui l’e-commerce e la presenza online delle nostre imprese è scarsa, inasprire barriere di accesso non aiuta e ci farebbe perdere ulteriormente in competitività, occorrono invece misure che educhino e incentivino l’utilizzo del digitale anche per le imprese.
La web tax, anche nella sua versione “alleggerita”, va poi nella direzione opposta alle misure contenute in Destinazione Italia, che si pone l’obiettivo di attrarre investitori stranieri per farli investire nel mercato italiano, due misure sviluppate e promosse dallo stesso governo.
Oggi, come si afferma all’interno del documento di presentazione di Destinazione Italia, la quota detenuta dall’Italia di investimenti esteri è pari a solo l’1,6% dello stock mondiale. Non basta. Bisogna attrarne di più facilitando gli investitori esteri. E proprio la web tax, che sarà introdotta dal primo gennaio, di fatto tassa con regime fiscale italiano (fra i più alti in Europa) gli attuali e più probabili investitori: quelli che operano nella web economy. Con un unico possibile risultato: disincentivarli e condannare le nostre imprese.
Da una ricerca fatta proprio da Google qualche mese fa, la ricerca di Made in Italy su web cresce ogni anno dell’8,1%. Un dato esaltante per la nostra economia. Dovremmo aprire l’Italia al mondo e ne abbiamo abbondantemente discusso a Firenze durante CNA Next #manifatture.
La “domanda di Italia” nel mondo è elevata, come ci ha confermato il Ministro Emma Bonino. Bisognerebbe però organizzare bene un’offerta. Con questa tassa sarà di certo più complicato ed a tratti impossibile.
Un’altra interessante ricerca fatta invece da Enrico Moretti e presentata nel saggio “La nuova geografia del lavoro” ci dice che per ogni nuovo posto di lavoro ad alto contenuto tecnologico creatosi in una città vengono a prodursi 5 nuovi posti di lavoro. Oggi il modo migliore in cui una città o regione può creare posti di lavoro meno qualificati è attrarre imprese hi-tech con dipendenti altamente qualificati.
Non può dunque prevalere una visione miope, che da sempre ha caratterizzato questo Paese. Il breve termine e l’assenza di una programmazione a medio-lungo raggio, recuperare risorse nell’immediato per abbattere debito, senza nemmeno considerare la possibilità nel medio termine di strutturare nuovi segmenti economici capaci di produrre, in maniera più che proporzionale, valore e dunque certa crescita.
All’interno poi dello stesso provvedimento c’è un qualcosa che non da pace a me ed a tutti quei giovani che usano oramai di frequente gli strumenti digitali come facilitatori di cultura: escludere l’editoria digitale dalla sacrosanta detassazione per l’acquisto di libri è un affronto alla cultura confermato dall’IVA al 22% e non al 4 come per l’editoria cartacea. Non deve forse questo apparire come un attacco al digitale ed a quella tendenza positiva, a parer nostro, della nostra economia a digitalizzarsi?
Comunque tra qualche mese per la cosiddetta web tax sarà certamente avviata una procedura di infrazione da parte della Commissione Europea ed il nostro paese dovrà pure rimetterci le sanzioni oltre alla perdita di competitività che purtroppo tutti dovremo affrontare. Siamo ancora in tempo, evitiamo di scendere dall’ultimo treno.