L’Aquila, la baracconata degli esperti e la sproporzione dei giudici

scienze

Una delle frasi più abusate in questo strano Paese è “le sentenze non si commentano, si rispettano”. L’ha ripetuta anche ieri Fabio Picuti, sostituto procuratore de L’Aquila, dopo la lettura della sentenza che, andando oltre le sue stesse richieste, ha condannato a sei anni di reclusione per omicidio colposo i sette membri della Commissione Grandi Rischi (sei più uno, a dire il vero) da un anno sotto processo per i fatti legati al terremoto del 6 aprile 2009.

Un pubblico ministero è tenuto a rispondere così, noi no. Le sentenze si commentano eccome, e questa di commenti ne merita molti.

Ho seguito questa storia a lungo per Nature, che come molte testate straniere è stata ben più attenta a questa complicata vicenda rispetto ai grandi giornali italiani,che la scoprono stamattina riportando in molti casi informazioni platealmente inesatte (no, non è una condanna per non aver previsto il terremoto, almeno questo si sperava di non leggerlo più.

Qualcuno lo spieghi a Odifreddi, per dire).

Lì mi sono sempre attenuto ai fatti, anche perché erano talmente intricati che provare semplicemente a metterli in fila mi pareva l’unico servizio dovuto ai lettori. Ma il nostro mestiere è anche interpretarli, i fatti, e qua e là prendere posizione. Arrivati allo snodo cruciale della sentenza (e che sentenza) qualche opinione l’ho maturata, e ringrazio Scienza in Rete di volerla ospitare.

Parto dalla fine della storia. Dopo aver letto le carte del processo e averne seguito i passaggi chiave, considero la sentenza sbagliata e, per molti versi, grave. Ma non per i motivi che oggi molti miei colleghi ripetono su giornali e social network: “sentenza contro la Scienza” (ovviamente sempre con la Maiuscola), “sintomo della radicata cultura antiscientifica italiana” e così via, senza farsi mancare la citazone di Croce e Gentile e della loro nefasta influenza.

Un processo penale va commentato con gli argomenti del diritto ben prima che con quelli della scienza. Questa condanna mi pare sbagliata non perché “antiscientifica”, ma perché giuridicamente poco fondata. Manda (manderebbe, se confermata) in galera sette persone per una accusa pesantissima senza prove abbastanza solide per farlo. Questo è sempre gravissimo, ma purtroppo non è una novità nella giustizia italiana, spesso usata per risolvere i nodi che il processo politico non sa sciogliere. Capita troppo spesso, e non diventa improvvisamente più grave perché stavolta gli imputati sono scienziati.

Ricordiamolo ancora: la tesi dell’accusa si basa sulla catena logica della negligenza professionale che influenza il corso degli eventi, finendo per causare la morte di una persona che altrimenti non sarebbe avvenuta. Definizione da manuale di omicidio colposo.

É la tesi che una superficiale e inadeguata analisi del rischio fatta nel corso della riunione (punto sostanzialmente non in dicussione, lo stesso Enzo Boschi l’ha definita tale) abbia portato la Protezione Civile a dare alla popolazione messaggi troppo rassicuranti rispetto a quanto la scienza avrebbe voluto (anche qui, diversi tra gli imputati si sono apertamente dissociati da quei messaggi che in sostanza escludevano la possibilità di un forte terremoto, ed esperti internazionali li hanno criticati), e che quei messaggi abbiano portato alcuni cittadini a rivedere i loro piani, in particolare quelli di lasciare l’Aquila per qualche giorno o di dormire in macchina.

Ma comunque la si pensi sui primi due punti, è l’ultimo quello cruciale perché si possa arrivare a una condanna: il processo ha provato oltre ogni ragionevole dubbio che quei 29 cittadini de L’Aquila oggi sarebbero sicuramente vivi se quei 7 imputati avessero fatto qualcosa di diverso? Mi pare che la risposta sia no.

Gran parte dell’accusa si basa su ciò che altri ricordano sui motivi delle decisioni prese dalle vittime ormai anni fa.

Con l’assoluto rispetto che si deve a chi ha perso familiari e amici in quella tragedia, e della cui buona fede non è lecito dubitare, bisogna dire che mandare in galera sette persone su questa base è un grande azzardo giuridico. Come lo è mandarci qualcuno che ha detto cose giuste (la maggior parte dei partecipanti alla riunione se ci fidiamo dei verbali, magari superficiali ma giuste) per le cose sbagliate che qualcun altro ha detto dopo averlo incontrato. O processare un soggetto istituzionale (la Commissione Grandi Rischi) e nel pacchetto mettere anche chi non ne fa parte ma era lì solo per accompagnare il capo (come Selvaggi).

La condanna si basa su una idea di “responsabilità collettiva” che, sospettiamo, non reggerebbe un giorno in tribunali di altri paesi. Anche nell’ipotesi che sia provato quel nesso causale, tuttora non è ben chiaro quale sia, secondo la Procura, l’evento specifico che avrebbe “causato” quelle morti. La riunione? La conferenza stampa? L’intervista televisiva di De Bernardinis? Non può essere stato tutto nella stessa misura.

All’inizio del processo il PM sembrava indicare in De Bernardinis e nella Protezione Civile i “cattivi” della vicenda, colpevoli di aver orchestrato una riunione che fin dall’inizio aveva il solo scopo di produrre un messaggio rassicurante culminato in quel tristemente famoso “bicchiere di vino” da bersi per scacciare la paura (per la cronaca, a De Bernardinis va riconosciuto di avere attraversato il processo da uomo delle istituzioni, mettendo la faccia in quasi tutte le udienze e parlando alla stampa, anche ieri sera, direttamente e non attraverso gli avvocati).

Alla fine del processo il PM è invece arrivato a definire De Bernardinis “vittima” dei sismologi, e della loro analisi superficiale delle possibili conseguenze di un forte terremoto in quell’area. Ora: o la riunione era una “mossa mediatica” (come la definisce Bertolaso nell’intercettazione telefonica del giorno precedente) con un finale già scritto, e allora gli scienziati sono stati almeno in parte presi in giro. O la Protezione Civile era sinceramente aperta all’opinione degli scienziati e ha deciso cosa dire ai cittadini solo dopo averli ascoltati. Le due ipotesi si escludono a vicenda, e il PM le ha di fatto sostenute entrambe.

Che un procuratore stiracchi un po’ il suo argomento per sostenere l’accusa fa parte del gioco, ma il compito del giudice è notarlo e decidere di conseguenza. Leggeremo le motivazioni, ma si direbbe che il giudice Marco Billi non lo abbia fatto. La certezza del diritto non esce bene da questa sentenza, e a costo di irritare qualcuno dei miei amici più “scientisti” (credo così poco alla stucchevole contrapposizione con gli “antiscientisti” che non riesco a scrivere il tutto senza virgolette), tengo alla certezza del diritto persino più che alla teoria dell’evoluzione.

Il risultato è una sentenza sproporzionata e incomprensibilmente uguale per tutti gli imputati. Condannare qualcuno e assolvere qualcun altro sarebbe stato forse altrettanto ingiusto, ma avrebbe almeno dato il senso che 13 mesi di processo siano serviti ad analizzare, distinguere responsabilità, dare indicazioni per un futuro ripensamento della prevenzione dei rischi, che deve per forza partire da maggiore chiarezza di ruoli: dove si fermano le responsabilità dei consulenti scientifici, dove iniziano quelle della politica, a chi spetta il compito di tradurre l’incertezza della scienza in una comunicazione efficace ai cittadini?

Il processo è figlio del grande, inaccettabile caos che circondava questi temi all’epoca (oggi le cose sono un po’ cambiate in meglio). Se voleva contribuire a una maturazione del rapporto tra scienza, politica e società, con questa sentenza urbi et orbi ha sprecato l’occasione.

Tutto questo significa che nessuno ha nulla da rimproverarsi per quella riunione della Grandi Rischi? O che a priori non si devono ritenere anche gli scienziati, nel momento in cui diventano consulenti governativi e quindi pubblici funzionari, responsabili delle loro azioni, della qualità del loro lavoro, del modo in cui influenza le scelte dei cittadini? No.

E, pur non condividendo questa sentenza, non basta dire che “i veri responsabili sono quelli che hanno costruito le case”. É vero, ma non è tutta la verità. Come può confermare il primo giapponese fermato per strada, la preparazione al rischio sismico ha due gambe, ugualmente importanti: l’edilizia antisismica e l’educazione al rischio dei cittadini. In Italia mancano entrambe, e se manca la seconda è in buona parte perché in passato le autorità (non senza qualche aiuto da scienziati di vaglia) hanno quasi sempre scelto lo stile di “comunicazione” visto a L’Aquila. Sposando la stravagante e, a modestissimo parere di chi scrive, inaccettabile teoria sostenuta in aula dal sociologo Mario Morcellini, chiamato come testimone per la difesa: “La rassicurazione è il primo obbligo di un organo pubblico”. Davvero? Credevo che il primo fosse dire la verità, e pazienza se non è rassicurante, ma forse sono un romantico.

A L’Aquila sono stati violati diritti fondamentali, troppe volte. È successo per tutti gli ultimi decenni, quando palazzinari e tecnici compiacenti delle autorità locali hanno costruito e autorizzato edifici (compresi grandi edifici pubblici come la Casa dello Studente) in spregio delle norme antisismiche, in una delle zone più sismiche d’Europa. É successo ancora tra la fine di marzo e l’inizio di aprile 2009, quando alla legittima e umanissima ansia di una popolazione stremata da quattro mesi di scosse si è risposto con una baracconata (perché questo fu la riunione della Commissione Grandi Rischi, di chiunque sia la colpa), con una comunicazione improvvisata, imprecisa e scientificamente infondata, in cui lo Stato semplicemente non ha trattato i suoi cittadini da persone adulte.

Ma diritti fondamentali sono stati violati anche ieri, con una sentenza che non corrisponde a quanto effettivamente emerso in aula, e che commina una pena sproporzionata per responsabilità non sufficientemente dimostrate in sede giudiziaria. E non si rimedia alla violazione di un diritto violandone un altro.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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