La natura ci ha fornito built-in, un ottimo sistema ottico accurato, che utilizziamo con grande soddisfazione. Poco più di quattro secoli fa Galileo Galilei ci ha insegnato che una combinazione di lenti ci poteva far vedere più chiaramente che ad occhio nudo. Grazie al suo rozzo cannocchiale il bagliore lattiginoso della galassia veniva risolto in innumerevoli stelle. Da allora è stato un crescendo, con strumenti sempre più grandi e sofisticati che ci hanno permesso di andare sempre più lontano nell’universo. Nel frattempo, nel secolo scorso, si è capito che esistono molte forme di luce che i nostri occhi non possono vedere. Si tratta delle onde radio, della radiazione infrarossa, di quella ultravioletta, dei raggi X e dei raggi gamma.
Nel tentativo di sfruttare tutte le radiazioni emesse dai corpi celesti, gli astronomi mettono i loro strumenti nei luoghi più estremi ed inospitali della nostra terra, in alcuni casi gli strumenti devono funzionare in orbita, fuori dall’influenza della nostra atmosfera.
Si cercano le migliori condizioni osservative lontane da ogni fonte di inquinamento luminoso. Le Ande Cilene sono molto gettonate per la qualità eccezionale del cielo e lo European Southern Observatory (ESO) ha investito moltissimo in Cile: sul Cerro Paranal ha costruito il VLT, il suo più grande osservatorio costituito da 4 telescopi con specchi da 8,2 metri di diametro coadiuvati da altri telescopi più piccoli, mentre sull’altipiano Chajnantor nel deserto di Atacama è nato ALMA, una schiera di radiotelescopi dalle prestazioni eccezionali. Il particolare microclima delle montagne che dominano le isole nell’oceano ha popolato di telescopi e il suo equivalente alle isole Canarie. E un altro posto ottimale è l’Antartide, zero umidità nell’aria, zero escursione termica, zero distrazioni.
BICEP2 in Antartide.
Credit: CfA
E’ dall’Antartide che è venuta la notizia che qualche mese fa ha fatto cadere dalla sedia un certo numero di cosmologi: lo strumento BICEP2 aveva visto la firma del primo momento di espansione frenetica del nostro universo. Un risultato paragonabile per importanza al bosone di Higgs ed altrettanto difficile da spiegare.
Tutti sappiamo che l’Universo si espande, le galassie si allontanano le une dalle altre con una velocità che dipende dalla distanza. E’ uno dei risultati più belli dell’astronomia del ‘900 e prende il nome di legge di Hubble.
Se l’universo si espande significa che c’è stato un momento iniziale quando tutto era concentrato in una singolarità. Se fate fatica ad immaginare cosa sia una singolarità vi raccomando di leggere il racconto Tutto in un punto dalle Cosmicomiche di Calvino.
Tuttavia quando i cosmologi hanno cercato di descrivere l’inizio dell’espansione si sono resi conto che doveva essere successo qualcosa di straordinario in una minuscola frazione del primo secondo di vita del nostro universo, quando nasce lo spazio e il tempo comincia a scorrere. In quel brevissimo lasso di tempo l’universo si è espanso a velocità ben superiore a quella della luce, passando da dimensione atomiche a quelle di un pompelmo. Certo, era ancora piccolo se pensiamo alle dimensioni attuali, ma una forza misteriosa l’aveva spinto a gonfiarsi. Questa crescita velocissima, che i cosmologi chiamano inflazione, deve avere prodotto onde gravitazionali che sicuramente permeano ancora l’universo, ma fino ad ora sono sfuggite alla nostra capacità di misura.
Quello che gli astrofisici cercano è la tenue firma dell’onda gravitazionale primordiale impressa nei fotoni che, insieme alle particelle, riempivano il pompelmo universale.
L’onda gravitazione distorce lo spazio e i fotoni registrano la distorsione e possono restituircela dopo un viaggio durato quasi 14 miliardi di anni. E’ un effetto minuscolo che va cercato nella radiazione cosmica di fondo, il rumore radio che permea tutto il cielo. L’onda gravitazione avrebbe costretto i fotoni (che, non dimentichiamolo, sono un’onda) ad oscillare in una direzione preferenziale, cioè avrebbe conferito loro una proprietà che prima non avevano: la polarizzazione (niente di esoterico, noi usiamo le proprietà della polarizzazione ogni volta che indossiamo occhiali da sole “seri”, non solo lenti scure ma lenti sensibili alla polarizzazione della luce).
La misura è difficile, va fatta lontano da ogni fonte di disturbo: il luogo ideale è la profondità dello spazio, dove ha operato con grande successo la sonda europea Planck, per esempio. In alternativa ci si può accontentare dell’Antartide. Ed è lì che da anni parecchi gruppi sono impegnati nella raccolta e nell’analisi dei dati. La competizione è palpabile: arrivare per primi ad un risultato di grande visibilità significa fama, finanziamenti, in altre parole: un futuro radioso. L’effetto è minuscolo, ma ha conseguenze enormi per la comprensione dell’origine dell’Universo.
John Kovac, da Cfa.harvard.edu
Nel marzo di quest’anno John Kovac dell’Università di Harvard pensava di essere arrivato alla grande scoperta grazie ai dati raccolti in Antartide dal telescopio BICEP2. Non si trattava certo di una scoperta per caso. Kovac aveva dedicato al problema tutta la sua carriera, andando ben 23 volte in Antartide e passandoci anche un intero inverno.
Lui e il suo gruppo avevano lavorato accanitamente a mappare una piccola regione di cielo usando uno strumento costruito apposta e che è sicuramente il migliore mai realizzato. Il 17 marzo, temendo di essere superato dai gruppi concorrenti, ha bruciato i ponti e ha convocato una conferenza stampa per annunciare il suo eclatante risultato, prima di sottoporlo ad una rivista scientifica. Aveva avuto l’assenso dei guru della cosmologia, che avevano in qualche modo previsto un effetto del genere e la cosa lo aveva rassicurato. Tuttavia, la scienza non si fa nelle conferenze stampa. In genere gli annunci vengono fatti nel momento in cui l’articolo con il risultato viene pubblicato da una grande rivista scientifica, dopo che i revisori interpellati dalla rivista abbiano avuto modo di dare il loro parere, se necessario fare le loro critiche e alla fine dichiarare che il risultato è meritevole di pubblicazione. Un risultato così importante, annunciato in modo così pompato, non poteva passare inosservato. Ma mentre si stappava lo champagne e si fantasticava di premi Nobel, qualcuno dai blog scientifici ha cominciato a porre una scomoda domanda. Come era stata fatta la correzione per la contaminazione della polvere cosmica?
Tutto quello che viene dal fondo dell’universo, prima di giungere ai nostri strumenti, deve attraversare la nostra Galassia, che è un ricettacolo di polvere. Gli astronomi lo sanno bene: le famose immagini della Testa di Cavallo o del Sacco di Carbone, solo per fare qualche esempio, non sono altro che nubi di polvere che appaiono nere perché hanno assorbito la luce della stelle che si trovano dietro a loro. La luce assorbita non viene perduta, ma si trasforma in un altro tipo di radiazione. Tuttavia il processo di assorbimento e ri-emissione lascia una piccola eredità: la polarizzazione.
Ecco perché la polvere è il nemico delle misure di polarizzazione, bisogna sempre applicare una correzione alla percentuale di polarizzazione misurata che è proporzionale alla quantità di polvere che è stata attraversata.
Kovac e i suoi colleghi sapevano benissimo che dovevano correggere per questo effetto, ma non avevano una mappa accurata della distribuzione della polvere nella zona che avevano misurato. Hanno fatto delle ipotesi e si sono convinti che, tutto sommato, avevano scelto una zona poco polverosa, quindi la correzione doveva essere modesta. I loro detrattori, invece, hanno sparato a zero dicendo che la validità del risultato dipendeva in toto dalla misura della polvere. Bastava aumentare di poco la quantità di polvere per annullare la polarizzazione cosmica (facendo ricadere tutto l’effetto sulla polvere galattica). E la misura della polvere galattica è arrivata poche settimane fa. Purtroppo per Kovac e i suoi colleghi la mappa delle polvere elaborata sulla base dei dati raccolti dal satellite europeo Planck ha dimostrato che nessuna regione del cielo è libera dalla contaminazione della polvere, e l’effetto che ha suscitato tanto clamore è quasi interamente dovuto a questa scomoda presenza.
Palla al centro, niente premio Nobel (almeno per il momento) e qualche altro viaggio in Antartide per raccogliere più dati. Gli errori servono come stimolo a fare meglio e Kovac non è certo uno che molla facilmente. E’ un uomo che ha un sogno e continuerà a inseguirlo.
PATRIZIA CARAVEO