La recente questione Uber sollevata prima dal Tribunale di Milano e poi dall’Authority dei trasporti, insieme all’interrogazione parlamentare presentata contro Cocontest, rende necessario riflettere sulla sharing economy, e sulla portata del cambiamento che propone. Per farlo bisognerebbe intendersi su che cos’è la sharing economy ma non potendo partire da una definizione condivisa, mi soffermo invece sulla sua più grande novità: il modello di servizio che offre, e che tiene insieme le grandi piattaforme internazionali come Airbnb, Blablacar e Uber così come le 138 startup italiane mappate l’anno scorso.
LE 4 CARATTERISTICHE FONDAMENTALI (E LE SFIDE) DELLA SHARING ECONOMY
1. LA PIATTAFORMAL’azienda, nel modello di servizio offerto dalle piattaforme di sharing economy, non eroga più servizi dall’alto verso il basso ma abilita le persone a incontrarsi per scambiare o condividere beni, tempo, denaro, ecc.
Le persone, quindi, e non più l’azienda, possiedono i beni.
Il modello piattaforma può essere adattato ad ogni ambito di mercato ed è alla base di diversi nuovi servizi come per esempio, in Italia, Twitteratura, Ginger, Sardex, Jobmetoo, che portano innovazione di mercato e anche sociale.
2. LA COMMUNITYIl vero assett delle piattaforme non sono più i beni, come era un tempo, ma le persone e, per questo, l’attività principale di un servizio di sharing economy è costruire e gestire la propria community con cui stabilisce un legame forte attorno a un sistema valoriale che di solito richiama la socialità dell’esperienza, il vantaggio economico, l’efficienza del servizio, la comodità e la flessibilità e così via.
La costruzione di una community genera un nuovo modo di fare azienda.
Tra l’interlocutore privato – ma anche pubblico – e il cittadino si instaura una relazione bilaterale e continuativa (le piattaforme più mature prevedono, anche, un processo di ascolto della community le cui proposte e malumori vengono monitorati e in alcuni casi diventano anche progetti).
3. LA CONVENIENZAL’incontro fra le persone promosso dalle piattaforme è mediato sempre da vantaggio che solitamente è economico ed esperienziale.La convenienza dei servizi incide nella vita delle persone sia in termini economici sia per la disponibilità di nuovi servizi spesso più comodi ed efficienti.
4. LA TECNOLOGIALa sharing economy è abilitata dalla tecnologia che semplifica il contatto fra sconosciuti e rende l’incontro più facile e immediato, permettendo di accedere al servizio in ogni momento e da qualunque luogo.
I “RISCHI” DELLA SHARING ECONOMY
Quando il servizio cresce e raggiunge una importante massa critica, tuttavia, queste caratteristiche possono costituire dei veri e propri rischi, ed è su questo che si sta concentrando in gran parte il dibattito internazionale e, in parte, anche le nostre istituzioni.
Infatti:
1. La piattaforma non possedendo beni non ha costi di infrastruttura e ha un potere di accumulo del capitale velocissimo;
2. quando la community raggiunge quella massa critica necessaria per essere efficiente, la piattaforma diventa la piazza dove recarsi per scambiare, creando una concentrazione e delle abitudini che scoraggiano di fatto l’ingresso sul mercato di altri concorrenti, che con grande difficoltà riusciranno a ricreare un ambiente così attraente e spostare masse di persone (e questo, ad esempio, è il motivo per cui Google non è mai riuscito a creare un social network che facesse una reale concorrenza a Facebook);
3. la convenienza generata dalla transazione, quando è economica, crea degli scompensi perché molti individui trasformano il servizio offerto dalle piattaforme in un vero e proprio lavoro, mentre le piattaforme continuano a trattare di fatto come autonomo un lavoro che si presenta come subordinato (da qui l’accusa di favorire un nuovo precariato e di non fare abbastanza per assicurare sicurezza e garanzie ai propri lavoratori);
4. la tecnologia permette a queste piattaforme di raccogliere i nostri dati e avere in mano il destino della nostra reputazione.
PERCHE’ ACCOMPAGNARE E’ MEGLIO CHE REPRIMERE
Di fronte a queste evidenze positive e negative è chiaro, dunque, che bisogna sviluppare un contesto di regole entro le quali far muovere queste piattaforme.
Un contesto, però, che abbia l’obiettivo di accompagnare la crescita di questi servizi e non di contrastarla.
Siamo, infatti, davanti a una grande trasformazione che è figlia delle tecnologie digitali e della maturazione del cittadino e una regolamentazione soffocante non può, e non avrebbe senso, fermare. Non si può, dunque, pensare di lasciare all’Autority dai trasporti o al Tribunale di Milano il compito di regolare questi servizi ma ci vuole un approccio di sistema perché il cambiamento riguarda tutti i mercati e non solo quello dei trasporti, dell’accoglienza, o l’ordine degli architetti.
CREARE UNA NUOVA INFRASTRUTTURA COLLABORATIVA
Un contesto, inoltre, che si preoccupi non più di tutelare il consumatore ma il prosumer, cioè sia chi offre il servizio (separando la posizione, per esempio, di chi utilizza la piattaforma occasionalmente e di chi, invece, con continuità), sia chi lo cerca (rendendo semplice, per esempio, l’accesso anche ai disabili e ai più deboli) e che magari preveda anche l’introduzione di una sorta di infrastruttura, come scrive Morozov su Internazionale, che metta insieme i servizi di verifica di identità, i sistemi di pagamento e di geolocalizzione a cui i diversi servizi debbano accedere in modo anche di favorire trasparenza e concorrenza.
Concludendo, non credo che ci sia una buona o una cattiva sharing economy, o che questa sia in assoluto un’opportunità o una minaccia. Credo che la sharing economy, e ancora di più la crowd economy, sia una trasformazione ormai in corso e che conviene accompagnarla in maniera consapevole ed equilibrata.
MARTA MAINIERI