Le 4 pratiche che caratterizzano il nuovo giornalismo

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l dibattito sul giornalismo è sempre vivo e vivace. In occasione del 24 gennaio, festa dei giornalisti, è il caso di riprendere la riflessione. In genere parlando del giornalismo si fa riferimento al giornalista, alla sua figura, al suo ruolo. Si parla, ovviamente, anche dei giornali, dette testate, delle piattaforme. E in realtà oggi dovremmo parlare di più del «pubblico», cioè dei lettori.

Il pubblico sta uscendo da una posizione passiva e sta mettendo sotto pressione l’ecosistema mediatico. La tecnologia abilita nuove forme di rapporto con il pubblico. La credibilità dell’informazione, ad esempio, va continuamente verificata e legittimata in un contesto di relazioni, e dunque diviene «affidabilità»; l’autorevolezza diviene «competenza»; e il giornalista un «testimone competente e affidabile».

Il valore stesso delle notizie, non è più intrinseco al loro stesso contenuto ma si ritrova nella loro capacità di creare relazioni tra i contenuti e tra le persone.

La notizia non è il contenuto che riempie la pagina (o il tempo radio o televisivo) ma il servizio che si presta a qualcuno.

L’informazione interessa e ha senso se crea «conversazione». E questo vale ancora di più e radicalmente per l’informazione che nasce o entra nell’ambiente digitale.

Michelle Atagana, managing editor di Memburn, ha affermato: When you write for print you have a beginning, middle and an end. When you write for online you have a beginning and middle; the end is up to the reader. Because the nature of online is so interactive and readers will call you out in the comments because that is their job and right, you have to leave the story almost open because it’s about conversation, unlike print when it’s more about information.

Risulta interessante leggere come la Corte di Cassazione ha definito il giornalista con sentenza n. 11/1968. Egli è colui che «con opera intellettuale, provvede alla raccolta, elaborazione o commento delle notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, mediando tra il fatto di cui acquisisce la conoscenza e la diffusione di esso attraverso un messaggio (scritto, verbale, grafico o visivo) necessariamente influenzato dalla personale sensibilità e dalla particolare formazione culturale e ideologica” (Cass., 19.5.1990, n. 4547).

E’ interessante confrontarla con la definizione molto sintetica di Jeff Sonderman: The journalist has not been replaced but displaced, moved higher up the editorial chain from the production of initial observations to a role that emphasizes verification and interpretation.

Working between the crowd and the algorithm in the information ecosystem is where a journalist is able to have most effect, by serving as an investigator, a translator, a storyteller.

Il giornalista è dunque un investigatore, un traduttore, un narratore che lavora tra la gente e gli algoritmi dell’ecosistema delle informazioni. Questa elasticità della nozione di giornalista, non è altro che l’effetto diretto della rapida e vorticosa trasformazione che sta interessando l’ordinaria concezione di giornalismo. In un tempo in cui gli “organi di informazione” si moltiplicano e si scompongono (dal blo ai social networks), il giornalismo sta non solamente una professione ma ancheuna dimensione antropologica.

Questa «socializzazione» dell’informazione ha generato almeno quattro pratiche di carattere giornalistico:

1. il costruire servizi informativi basati sull’aggregazione originale di materiali condivisi su differenti social networks su una piattaforma come Storify o ancora piattaforme di civic media come Timu, che aggregano contenuti di varia natura realizzati da persone, consapevoli che ciascuno di noi è un living link.

2. il nascere dei social reader, applicazioni che selezionano le news sulla base di ciò che i nostri amici sui social network condividono: Flipboard, Pulse, Zite, Prismatic, Mynews.is, Circa… Questi software analizzano le connessioni tra iscritti collegati i un social network in modo da scoprire chi, all’interno della propria rete di contatti, condivide le notizie più rilevanti.

3. il nascere di piattaforme di social bookmarking come Reddit e social news come Digg dove le notizie più importanti sono segnalate dagli utenti registrati che possono votare a favore o contro di essa se la ritengono interessante o meno.

4. Il nascere di progetti crowdfunding (finanziamento diffuso) per cui un giornalista chiede al proprio pubblico di essere finanziato per fare un servizio. E’ il caso di Claudia Vago (@tigella), che ha raccolto 2.600 euro per documentare il fenomeno Occupy Wall Street. E lo ha fatto grazie a www.produzionidalbasso.com che permette di organizzare e trovare finanziamenti per qualsiasi forma di autoproduzione, senza filtri e senza nessuna intermediazione. Questo è il punto: il digitale disintermedia, e occorre fare i conti con questa realtà.

E il caso di Claudia Vago è un chiaro esempio di «reputation economy» che spinge anche singoli bloggers a decidere di «professionalizzarsi» e a fare pagare (paywall) l’accesso ai propri post. E’ il caso di Andrew Sullivan, noto blogger britannico trapiantato in America che ha deciso di chiedere ai lettori del suo blog The Dish di sottoscrivere un abbonamento di 20 dollari all’anno.

Quando la rete diventa strumento d’informazione, magari a basso costo, essa produce comunque aggregazione, partecipazione, interesse civile per la cosa pubblica. Ed è questo, in fondo, una delle ragioni migliori che spingono le persone ad essere informate.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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