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Le 8 scuse dei nemici dell’Open Government e come superarle

innovaizone

Il primo post per CheFuturo l’ho scritto a Brasilia, proprio otto mesi fa.

L’ho scritto per spiegare quale fosse la ragione di quel mio viaggio intercontinentale: il primo meeting dell’Open Government Partnership (OGP). Non un qualunque convegno internazionale, sia pur qualificato, ma un’iniziativa multilaterale che vede coinvolti governi e società civili di oltre cinquanta Paesi con l’obiettivo di far diventare l’Open Government una realtà per ben due miliardi di persone.

Da Brasilia, l’Italia sembrava molto lontana, e non solo per la distanza geografica: il Governo aveva aderito a OGP ma non sembrava esserci molta convinzione, visto il deludente action plan e l’assenza di una vera consultazione di cittadini e società civile. Ma la colpa non era solo del governo: giornali e TV non hanno parlato di OGP (né dell’evento di Brasilia) e solo pochi addetti ai lavori hanno discusso i contenuti del piano italiano, nonostante si trattasse di temi decisivi per il presente ed il futuro della nostra democrazia.

L’auspicio con cui chiudevo il post era che l’adesione a OGP rappresentasse per il nostro Paese un punto di non ritorno: da lì in avanti, il nostro percorso sulla via per l’Open Government sarebbe stato monitorato dagli altri Stati e dalla società civile di tutto il mondo. Per non parlare dell’effetto legato all’emulazione: l’aggregazione di diversi Paesi poteva stimolare una (sana) concorrenza su chi fosse più aperto alla trasparenza, alla partecipazione e collaborazione.

E così, almeno in parte, è stato! Grazie all’impegno di civil servants illuminati e di una cocciuta società civile, i temi del Governo Aperto sono sempre più dibattuti anche in Italia e il nostro Governo ha iniziato a lavorare con maggiore convinzione su questi temi. Lo dimostra l’organizzazione di un meeting OGP, tenutosi a Roma lo scorso 10 dicembre.

Rappresentanti di governi e società civile di tutta Europa si sono incontrati per discutere dei tre pilastri dell’Open Government in vista del prossimo meeting di Open Government Partnership che si terrà nel 2013 in UK; non si è trattato tanto di un seminario, quanto – piuttosto – di un confronto per fareil punto sulle iniziative dei diversi Paesi e mettere a fattor comune errori e buone prassi. In piena logica Open, appunto.

Certo, è innegabile che l’Italia sia ancora molto indietro rispetto ad altri Paesi e che manchi ancora un vero e proprio commitment politico rispetto ad altri temi dell’innovazione. Un segno su tutti: mentre l’agenda digitale è un tema presidiato da diversi membri dell’esecutivo, al Meeting OGP non era presente neanche un Ministro.

Ma non bisogna nemmeno essere disfattisti! Non mancano certo le buone prassi e le belle esperienze: penso, ad esempio, al portale dati.gov.it(che non solo raccoglie gli Open Data italiani, ma è un prezioso strumento di formazione/informazione per tutte le Pubbliche Amministrazioni) e al portale Open Coesione (esperienza all’avanguardia che altri Paesi si accingono a copiare).

Anche la società civile sta iniziando ad attrezzarsi come nei Paesi più evoluti per essere un partner affidabile delle politiche di Open Gov come dimostra la nascita di un Open Government Forum che ha l’obiettivo di coordinare tutte le diverse realtà già operanti.

Incontri come quello di Roma, poi, servono ad uscire dalla “mitologia” per cui altrove (nei Paesi virtuosi) sono tutte “rose e fiori” e non si incontrano ostacoli: le resistenze esistono dappertutto, l’unica differenza è che alcuni, i più bravi, riescono a superarle.

Ha destato grande interesse, ad esempio, l’intervento di Andrew Stott, membro del Transparency board del Governo inglese, il quale ha aperto la propria presentazione enumerando le quattordici scuse più ricorrenti dietro cui le PA (anche nella virtuosa Inghilterra) provano a nascondersi per non fare Open Data.

Mi ha convinto l’approccio pragmatico: non c’è più bisogno, almeno tra gli addetti ai lavori, di spiegare perché sia opportuno fare trasparenza e Open Data, anche perché – a parole – sono tutti concordi (avete mai sentito un politico o un funzionario pubblico dire, apertamente, di essere contro la trasparenza?).

È più utile, semmai, capire quali sono i “nemici” dell’Open Government e capire come si vincono le resistenze, soprattutto quelle culturali.

Imitando Stott, ho ri-pensato a quali sono le principali obiezioni che, in questi anni, ho sentito muovere da chi non ha voglia di fare Open Goverment: eccole, con l’indicazione di alcuni argomenti che possono essere usati per superarle.

1)“È tecnicamente impossibile pubblicare tutti i dati in formato aperto e poi costa troppo” – Si tratta di un grande classico della retorica “anti-opendata”: della serie “sarebbero più i costi che i vantaggi”. Si tratta di un’obiezione poco calzante in quanto la democrazia ha i suoi costi (anche le elezioni sono una spesa) che però sono necessari ad assicurare l’efficienza del sistema e i diritti civili. Per non parlare del fatto che questi costi rappresenterebbero un vantaggioso investimento in grado di evitare inefficienze e ridurre il rischio di corruzione. Ad esempio, in USA il costo per cittadino di un Freedom of information act (FOIA) è di circa 5 dollari/anno, mentre in Italia la corruzione costa circa 1000 Euro/anno per ognuno di noi. Servono altre cifre?

E poi: la trasparenza non solo accresce la fiducia di cittadini e mercati nelle istituzioni, ma è in grado di fare conseguire benefici di ordine non economico. Ad esempio, che valore ha la diminuzione del tasso di mortalità per un certo tipo di interventi chirurgici a seguito della pubblicazione on line dei dati delle strutture sanitarie?

2)“Se ci sono troppi dati, i cittadini non saranno in grado di orientarsi e di trovare le informazioni davvero importanti” – Non v’è dubbio che questo sia un rischio reale, anche se remoto (al momento, le informazioni pubblicate in Italia sono ancora poche). Tuttavia, attraverso gli opportuni accorgimenti tecnici è possibile riuscire a fare in modo che ciascuno possa trovare più agevolmente i dati a cui è interessato. Bisogna inoltre risolvere un equivoco: non tutti saranno interessati a tutti i dati, ciascuno riuscirà ad identificare e ad interpretare le informazioni cui è interessato, sfruttando le proprie competenze. Ad esempio, un avvocato sarà in grado di cercare e interpretare agevolmente le informazioni sull’efficienza degli uffici giudiziari mentre un medico potrà fare lo stesso per i dati relativi alle liste d’attesa in ambito sanitario o all’incidenza di determinate patologie. Poi, anche attraverso la Rete, ciascuno potrà condividere con tutti gli altri cittadini.

3)“I nostri dati sono sbagliati” – Fino ad oggi, le Pubbliche Amministrazioni non hanno prestato adeguata attenzione alla qualità dei propri dati e, quindi, è assai probabile che questo accada. In quest’ottica, però, la pubblicazione dei dati è una fantastica opportunità per un cambio di passo: gli Enti, sapendo di essere osservati, possono porre maggiore attenzione alla qualità delle proprie informazioni. E non è solo un fatto di trasparenza: nella società dell’informazione, avere dati sbagliati significa assumere decisioni errate.

4)“I nostri dati sono sbagliati e le persone ce lo diranno” – Leggera viariante dell’obiezione precedente che nasce dalla paura di rendere pubbliche le lacune del proprio patrimonio informativo (e, forse, del proprio lavoro). È infatti molto probabile che, se esistono degli errori, le persone se ne accorgeranno, ma – se le PA sono aperte – potranno contare sull’aiuto della comunità e, almeno in una fase iniziale, nella comprensione degli utenti.

5)“Le persone non capiranno i dati e sbaglieranno ad interpretarli” – Si tratta di una tipica obiezione di tipo “paternalistico”, propria di chi tratta gli utenti come bambini immaturi e non come cittadini consapevoli. A parte il fatto che tra i cittadini c’è sicuramente chi è in grado di comprendere e utilizzare correttamente i dati, il rischio che qualcuno sbagli ad interpretarli non è assolutamente un motivo sufficiente per non pubblicarli (si pensi, ad esempio, ai dati relativi ai terremoti o all’inquinamento). Semmai, bisogna investire in cultura e formazione, con l’adozione di politiche inclusive che vadano nel senso di consentire al numero sempre maggior di persone l’accesso ai dati e una loro corretta interpretazione.

6)“Non serve: sono in pochi a partecipare” – Il classico argomento di chi ha fretta di liquidare gli esperimenti di partecipazione. Chi dice questo, infatti, ignora (o finge di ignorare) che le dinamiche partecipative richiedono tempo. Non ci si può aspettare che la mera pubblicazione di un dato o l’apertura di una consultazione pubblica sia sufficiente a conseguire, da subito, migliaia di click e di commenti. Sono necessarie iniziative di formazione e informazione, progetti che rendano tangibili i benefici della trasparenza e della partecipazione e, soprattutto, una seria volontà di ascolto e confronto da parte dei decisori. Le “iniziative-spot” non aiutano, anzi…

7)“Le decisioni le prendono gli eletti, il plebiscitarismo non va bene” – Alla base di quest’obiezione c’è un equivoco: quando si parla di collaborazione e partecipazione, non si ha in mente un sistema di tipo plebiscitario che si traduce in referendum su tutte le scelte. Nessun “televoto permanente”, quindi. Coinvolgere cittadini e stakeholders significa fornire ai decisori più elementi, ma non delegare le scelte: questo non significa deresponsabilizzare gli eletti, ma – al contrario – valorizzare il momento delle decisioni (ed inchiodare governanti e amministratori a maggiori responsabilità).

8)“Se faccio le consultazioni pubbliche, come faccio ad accontentare tutti?” – Aprire procedimenti di consultazione non significa dover necessariamente accontentare tutti. Infatti, è fisiologico che, su ogni questione, si registreranno pareri/posizioni diverse e – quindi – la decisione finale potrà scontentare qualcuno dei partecipanti. Ma petizioni e consultazioni servono proprio a questo: mappare gli interessi in gioco, capire quali sono le priorità per le persone e provare a prevenire i conflitti motivando adeguatamente le scelte. Anche perché le decisioni scontenteranno qualcuno anche se non apriamo una consultazione.

E voi, avete sentito altre “scuse” per non attuare trasparenza, partecipazione e collaborazione? Oppure avete argomenti per superarle?

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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