Il cielo: cosa c’è di più “open” del cielo? Basta che non lo oscuriamo con troppe luci parassite e il cielo è a disposizione di tutti. Gli occhi sono uno strumento molto versatile per l’osservazione del cielo ma la loro capacità è limitata dalle dimensioni ridotte. Quattro secoli fa, Galileo Galilei mise a punto il primo strumento ottico. Utilizzando un’idea che veniva dalle Fiandre, combinò due lenti poste alle estremità di un tubo e inventò il cannocchiale, una parola di sua invenzione ottenuta dalla fusione di cannone (il tubo) con occhiale (le lenti).
Galileo intuì l’interesse strategico del suo strumento e lo fece provare al Doge che capì subito che il cannocchiale permetteva di distinguere le navi da lontano e vedere se si trattava di amici, da accogliere, o di nemici, da combattere.
Lo stipendio di Galileo aumentò all’istante, ma il grande scienziato non passò alla storia per questo. Il passo epocale venne fatto quando Galileo puntò il cannocchiale al cielo e si rese conto che vedeva infinitamente di più che ad occhio nudo. Fece dei disegni bellissimi della Luna, delle macchie solari, delle fasi di Venere, dei pianeti di Giove, della strana forma di Saturno, della moltitudine di stelle che distingueva, puntando il cannocchiale in qualsiasi direzione.
Grazie ai suoi disegni, Galileo rivoluzionò l’astronomia.
Il rapporto tra gli astronomi e i loro telescopi passava attraverso la carta. Infatti, l’unico modo per informare il resto del mondo, sia i colleghi, sia la gente comune, su quello che vedevano grazie ai loro strumenti era mediato dalla loro capacità grafica.
Questo rimase vero per centinaia di anni, fino alla fine dell’800, quando Giovanni Virgilio Schiaparelli, direttore storico dell’Osservatorio di Brera, guardava Marte. Era uno dei suoi argomenti di ricerca preferiti e lo disegnò per anni, riempiendo decine di quaderni, conservati con cura nella biblioteca storica.
Combinando i suoi disegni costruì la prima mappa di Marte. Tuttavia Schiapparelli sapeva che bisognava fare un altro passo. Per aggiungere oggettività a quello che si vedeva, occorreva sviluppare i dagherrotipi per l’astronomia. Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 prende piede la fotografia astronomica che dominerà la ricerca astronomica per quasi un secolo.
Negli anni ’60 nasce l’astronomia spaziale: gli oggetti in orbita devono colloquiare con la Terra e non possono scambiare informazioni in analogico, devono passare al digitale.
Negli stessi anni nascono i computer e ci si rende conto che possono essere utili all’astronomia e, quindi, bisogna digitalizzare le lastre. Un lavoro certosino, che viene fatto in tutti i grandi osservatori del mondo, ma tutto questo sta per essere spazzato via. Sta arrivando un’altra rivoluzione: i CCD.
Alla fine degli anni ’70 si comincia a montare nei fuochi dei telescopi i Charge-Coupled-Devices. Sono stati inventati pochi anni prima e gli astronomi sono i primi ad utilizzarli. Si rendono conto che cambiano la vita e quindi lavorano in collaborazione con le industrie per migliorare i CCD, per renderli sempre più potenti: i primi erano poco più 100×100 pixel, poi sono diventati 512×512, poi 1024 x 1024, poi sempre più grandi. Come conseguenza, la quantità di dati che vengono raccolti con i CCD aumenta in modo drammatico. A questo punto, tutti i telescopi, siano essi a terra o nello spazio, producono dati digitali che gli astronomi organizzano in un unico formato inventato per accomodare ogni tipo di informazione. Nasce il formato FITS (Flexible Image Transport System) che rappresenta un esempio molto positivo della globalizzazione a livello scientifico. Infatti, visto che tutti i dati astronomici sono scritti nello stesso modo, possono essere letti tutti con gli stessi programmi. Anche se poco appariscente, questa è stata una grandissima innovazione che, di pari passo con i CCD, ha cambiato la vita e ha permesso agli astronomi di affrontare le sfide che li aspettavano per gestire una quantità di dati in crescita esponenziale. Quando, all’inizio del 2000, è entrato in funzione in telescopio Sloan, dedicato a fare survey del cielo con immagini da 120 Megapixel prodotte da una matrice di 30 CCD da 2000 x 2000 pixel ciascuno, la quantità di dati disponibili all’astronomia è raddoppiata in una settimana.
Per visualizzare l’esplosione della quantità di dati disponibili si possono fare grafici multicolori (per esempio, clicca qui).
Io preferisco utilizzare la vena artistico-umoristica del mio collega Lucio Chiappetti che ha rappresentato la famiglia dei Byte, giocando sul fatto che Byte – l’unità di misura dell’informazione digitale – e to bite, mordere, si pronunciano allo stesso modo. Le sequenza parte dal piccolo byte, poi viene il kilobyte (siamo andati sulla Luna con i kb), il Megabyte (quello delle vostre camere digitali), il Gigabyte (sono i film in DVD), i Terabyte (che utilizzate per fare il salvataggio dei vostri dati), il Petabyte (20 Petabyte sono i dati che gestisce Google in un giorno).
Che gli astronomi siano stati tra i primi a capire che dovevano imparare a gestire una valanga di dati è un fatto ben noto e riconosciuto a tutti i livelli. Per esempio nel giugno 1999, in tempi non sospetti, in un articolo di commento, pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature, si dice: “Bisogna decidere se cavalcare o farsi travolgere dall’onda di marea dei dati che stanno arrivando” Nel testo viene sottolineato “i fisici, gli astronomi e gli scienziati che fanno modelli climatici saranno in grado di gestire la situazione perché loro hanno già idea di che cosa devono fare”. Il successo degli astronomi nel gestire grandi quantità di dati è ampiamente riconosciuto nel libro “Big data: a revolution that will transform how we live, work and think“, che è stato pubblicato in questi giorni.
Come suggerito dall’occhiello del pezzo di Nature, gli astronomi avevano capito che bisognava investire in computer, software e accesso pubblico ai dati. In più hanno aggiunto un altro asset importante: la fantasia, che hanno utilizzato in molti ambiti.
Investire in computer è sicuramente una bella cosa, ma non sempre i gruppi scientifici si possono permettere grandi spese per il calcolo. Viene così sviluppato il sistema BOINC (Berkeley Open Infrastructure for Network Computing) che è alla base del calcolo distribuito e gratuito, cioè dello sfruttamento delle capacità di calcolo dei nostri PC, quando sono accesi ma non fanno nulla, per svolgere compiti di qualsiasi tipo grazie alla connessione web con un server di gestione. Nel ‘99 nasce SETI@home un salvaschermo che utilizza il nostro PC per cercare segnali non naturali nei dati raccolti dai radiotelescopi quando osservano qualsiasi tipo di oggetto astronomico. Si tratta di riciclo astronomico a costo zero, con zero finanziamenti pubblici e probabilità di successo piccola a piacere. Tuttavia, la ricerca di vita extraterrestre è un argomento talmente affascinante che SETI@home ha attratto 5 milioni di partecipanti, circa 150.000 dei quali sono attivi in ogni momento. Un altro bell’esempio è Einstein@home, dedicato alla ricerca di onde gravitazionali (e, più recentemente, di segnali pulsati da stelle di neutroni), che ha convinto 3 milioni di partecipanti, mediamente 130.000 dei quali sono attivi.
Dopo avere fatto da apripista per lo sfruttamento del calcolo distribuito, gli astronomi hanno rivolto la loro fantasia alla risoluzione di uno dei problemi più basilari della ricerca astronomica: la classificazione degli oggetti celesti.
Nell’ammirare immagini tratte dalla Sloan Digital Sky Survey gli astronomi cominciano a chiedersi: quante galassie ci sono? di che tipo sono? di che dimensioni? di che colore? In altre parole, vorrebbero che gli oggetti nell’immagine fossero classificati. Si può fare con il software? Certamente si, ma il software non è perfetto: ha un certo numero di errori che devono essere rivisti tutti e il compito diventa subito gravosissimo. Come si può risolvere il problema? Si crea un portale ad hoc dove i dati della Sloan Digital Sky Survey sono trasformati in quadretti, ognuno centrato su una galassia, e si va a chiedere aiuto via web ai volontari che dedicano una frazione del loro tempo libero a svolgere dei facili compiti per permettere la classificazione degli oggetti celesti.
Galaxy Zoo è stato lanciato nel giugno 2007 con l’idea di avere qualche migliaio di persone che avrebbero aiutato gli astronomi a fare questo tipo di lavoro. Le persone sono state 250.000. Galaxy Zoo ha avuto 60.000 classificazioni all’ora e, in pochissimi mesi, ha fatto un’enorme quantità di lavoro, producendo risultati di grande rilevanza scientifica e anche un certo numero di scoperte “inaspettate”. E’ uno straordinario esempio di “Citizen Science”, la scienza fatta con il contributo dei cittadini.
Visto il successo travolgente, Galaxy Zoo si è diversificato ed è diventato un’industria (si chiama Zoo Universe). A questo punto si può fare di tutto: dal cercare i pianeti nei dati del telescopio spaziale Kepler, a studiare il sole, ispezionare la superficie della luna, cercare bolle di gas nella galassia; ma è anche possibile studiare lo stato di salute dell’ambiente marino, stimare la frequenza degli uragani, prendere dei pezzetti di papiro e cercare di metterli insieme. E’ veramente una bella raccolta di tutto ciò che i cittadini possono fare per partecipare alla ricerca scientifica.
Per partecipare a progetti di Citizen science bisogna connettersi a determinati siti e essere parte attiva, decidendo cosa si vuole fare. Adesso c’è un’altra modalità, grazie alla quale la scienza viene verso il pubblico: sono le APP che vi raccontano cosa sta succedendo nel cielo.
Chi scarica una di queste APP, e attiva il servizio di notifica, riceve una ”allerta”, diciamo così, quando succede qualcosa di interessante, oppure semplicemente di diverso dal solito. E’ la scienza in tempo reale.
Per esempio, la APP della NASA 3D Sun permette di seguire il comportamento del Sole. La nostra stella sta andando verso il massimo del suo ciclo di 11 anni; ci sono le macchie che generano le tempeste solari che potrebbero interessare la Terra e la APP vi aggiorna continuamente. In questi giorni le allerte si susseguono, ma non c’è da preoccuparsi: l’aumento di attività del Sole rientra nel suo ciclo naturale.
Chi vuole essere sempre informato sulle ultime scoperte in fatto di pianeti extrasolari deve scaricare EXOPLANET. Attenti ad attivare la funzione di notifica: si sono dati casi di 7 esopianeti scoperti in un solo giorno … quindi, se lo fate, sapete che correte qualche rischio.
Per permettervi di avere il cielo in tasca l’INAF, l’Istituto Nazionale di Astrofisica, mette a disposizione del pubblico delle APP con i dati degli strumenti che sono gestiti da ricercatori dell’Ente stesso. Lo strumento AGILE, che è un satellite per astronomia gamma interamente italiano, vi offre AGILEScience, la APP che vi permette di vedere com’è il cielo gamma in questo momento. Il cielo gamma è molto variabile, e quindi seguirlo di giorno in giorno è estremamente interessante. Andrea Bulgarelli, dell’INAF di Bologna, dopo aver sviluppato AGILEScience, adesso vuole aggiungere dei tools di analisi dati touch. Siamo tutti molto curiosi di vedere cosa riuscirà a fare.
Se volete vedere com’è il cielo gamma osservato dalla missione Fermi, il fratello maggiore di Agile a marchio NASA, che conta su una forte partecipazione italiana, scaricate Fermi Sky. E’ una APP che parla veneto perché è stata fatta da Denis Bastieri dell’Università di Padova e da Giacomo Saccardo studente di ingegneria informatica di Trento. Giacomo si è talmente divertito che poi ha accettato di andare a State College, dove c’è il centro di controllo di Swift, per sviluppare NASA Swift.
SWIFT è un’altra missione della NASA, sempre con una importante partecipazione italiana, specializzata nello studio i lampi gamma. Sono le esplosioni più catastrofiche che conosciamo nel nostro Universo perché segnano la morte di una grande stella e la sua trasformazione in un buco nero. Per ogni lampo gamma la APP NASA Swift vi manda un’allerta, che è la stessa che ricevono gli scienziati. Se siete curiosi e volete saperne di più, basta guardare le curve di luce che vengono immediatamente messe a disposizione. Il 27 aprile scorso è stato registrato il lampo gamma più intenso degli oltre 8 anni di attività della missione Swift. Il turno di monitoraggio dei risultati SWIFT toccava all’INAF di Palermo e il primo a vedere i dati è stato Alessandro Maselli, un giovane ricercatore precario che si è trovato a gestire il lampo gamma più bello della storia e mi permette di finire in gloria questa carrellata attraverso l’Italia della ricerca astronomica che vuole essere alla portata di tutti.
Dati pubblici, capacità di gestione, coinvolgimento del pubblico, entusiasmo e fantasia sono gli ingredienti del grande successo dell’Astronomia in Italia e nel mondo.