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Le élites di Internet dove il precario vale più del politico

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Tutte le volte che qualcuno propone di usare Internet per estendere gli spazi di dialogo democratico viene accolto da un coro di consensi. Estendere il dialogo democratico non può essere una cosa sbagliata. Ma c’è sempre qualcuno che aggrotta le sopracciglia: sì, certo, però non tutti usano bene il computer. Come la mettiamo con gli anziani? Le persone meno scolarizzate? I disabili? Intorno, altri annuiscono saggiamente. Bisogna stare attenti, procedere con cautela. Se gli spazi di democrazia elettronica sono troppo ampi si rischia di dare ancora più peso politico ad élites già molto ascoltate, e di escludere ancora di più i già esclusi.

Capisco questi dubbi. Eppure mi chiedo: possibile che non siano ancora stati risolti? In fondo sono anni che tecnici preparati e leader politici lungimiranti sperimentano con le reti elettroniche in quanto spazio politico e di governance.

Cosa abbiamo imparato da questa esperienza?

La prima istituzione democratica ad aprire uno spazio per la partecipazione dei propri cittadini usando reti di computer come canale di interazione è, per quanto mi risulta, la città di Santa Monica, in California. La sua Rete Elettronica Pubblica (PEN nell’acronimo inglese) viene lanciata nel febbraio 1989. Non si parla ancora di Internet: PEN è una rete locale. Il cuore del sistema è un minicomputer Hewlett-Packard. I cittadini possono connettersi via modem (se lo possiedono, cosa tutt’altro che scontata nel 1989) o utilizzando alcuni terminali posti nella biblioteca pubblica.

Nel 1993 la città presenta un rapporto di valutazione dei primi quattro anni dell’esperienza. I punti principali sono i seguenti.

  • Oltre l’80% dell’attività degli utenti consiste nell’interagire gli uni con gli altri, via email (20%) e soprattutto sul forum pubblico (60% e oltre).

  • La grande maggioranza degli 85mila cittadini di Santa Monica non usa PEN, che ha solo 3000 utenti registrati. Tra gli utenti, la grande maggioranza non partecipa alle discussioni: solo 5-600 accedono al sistema tutti i mesi, e solo 50-150 sono gli utenti forti, autori della maggior parte dei contenuti.
  • Gli utenti di PEN sono in media più ricchi, più scolarizzati, e più interessati alla politica della media dei loro concittadini.
  • Un certo numero di cittadini senza fissa dimora partecipa in modo assiduo e visibile alla discussione online. Questa partecipazione si traduce nel maggiore successo politico e amministrativo di PEN. Vale la pena di raccontare la storia.

Fin dai primi mesi, i senza fissa dimora di PEN riescono a comunicare il loro problema principale: se non hai una casa, è difficile avere un aspetto pulito e ordinato.

E senza un aspetto decente, non puoi avere un lavoro, quindi non puoi permetterti una casa. In agosto 1989 viene fondato un PEN Action Group, guidato da una professoressa universitaria. Cittadini con e senza fissa dimora progettano un nuovo servizio pubblico, battezzato SHWASHLOCK: docce pubbliche (showers aperte fin dalla mattina presto per potere essere usate prima di affrontare la giornata; lavatrici (washing machines) per fare il bucato; e armadietti (lockers) in cui custodire i propri averi.

Nessuna agenzia pubblica e nessuna ONG in città fornisce il servizio, nonostante la Camera di Commercio di Santa Monica abbia identificato la condizione di senza fissa dimora come “il problema numero uno della città”. L’Action Group raccoglie fondi, convince una agenzia comunale a gestire un sistema di voucher per le lavanderie cittadine e avvicina un’impresa che produce armadietti che accetta di donarne alcuni alla città.

Nel luglio 1990 l’amministrazione cittadina, rispondendo a queste sollecitazioni, lancia SHWASHLOCK.

Nel frattempo, il centro di assistenza ai senza fissa dimora di Santa Monica viene attrezzato con un terminale di PEN per facilitare ai cittadini meno fortunati l’accesso al servizio.

Il rapporto del 1993 è firmato da Ken Phillips, il direttore del servizio sistemi informativi della città, Joseph Schmitz, ricercatore universitario e co-progettista di PEN insieme a Phillips, il suo collega Everett Rogers e Donald Paschal, un cittadino senza fissa dimora di Santa Monica. Scrive Paschal: “La rete è un grande equalizzatore. Nessuno su PEN sapeva che io vivo in strada fino a che non sono stato io a dirlo. E anche dopo averlo detto, sono stato trattato come un essere umano… la cosa straordinaria della comunità di PEN è che un consigliere comunale e un povero possono coesistere, anche se non sempre in perfetta armonia, ma su basi di eguaglianza.” (Fonte: Wired).

Cosa sta succedendo qui? Come riconciliare il reddito alto e l’istruzione universitaria della maggior parte degli utenti di PEN con il senso di uguaglianza provato da Paschal e dagli altri senza fissa dimora di Santa Monica?

C’è una spiegazione abbastanza semplice: il digital divide e la tradizionale linea dell’esclusione sociale non coincidono. Considerate un uomo politico della vecchia guardia: laurea in giurisprudenza o in medicina, mazzetta di giornali, rete di consenso basata sulla presenza nel territorio. Tecnologia zero: probabilmente gli hanno regalato l’iPhone e lo usa per telefonare. Questa persona è pienamente inclusa nella società che la esprime e vi esercita una certa influenza, ma è un escluso digitale.

Considerate invece un precario ventiseienne, laurea in scienza della comunicazione, nessuna prospettiva di occupazione a lungo termine, iperattivo su vari media sociali. Questa persona è un incluso digitale, ma marginale e a forte rischio di esclusione in senso lato. Aprire uno spazio di partecipazione politica in rete aumenta il peso politico del giovane precario e diminuisce quello del notabile, perché il primo è suo agio in quell’arena, e il secondo no.

La diseguaglianza generata dal digital divide interferisce con quella preesistente. L’effetto netto è una riduzione dell’eguaglianza complessiva. Si è visto molto bene in Edgeryders, i cui membri sono in genere molto a loro agio con le tecnologie, ma molti di loro sono poveri. Ne conosco personalmente almeno quattro che fanno dumpster diving, cioè recuperano dai cassonetti dei rifiuti alimenti buoni e freschi, ma gettati via. Tre di loro sono programmatori. Sono esclusi o membri dell’élite?

L’altro fenomeno che, in rete, riduce la visibilità dell’elettore mediano (nel gergo politico italiano si direbbe “della casalinga di Voghera”), è l’impegno elevato che serve per partecipare da protagonisti. Qui non si tratta di fare una croce a matita ogni qualche anno: si tratta di partecipare a discussioni spesso serrate, argomentare, documentarsi. La maggior parte delle persone semplicemente non ha interesse al gioco. La parte rimanente tende ad essere più istruita della media (e anche più ricca, perché il reddito correla bene con l’istruzione).

Questi due effetti si combinano per produrre l’ambiente tipico delle piattaforme di partecipazione civica in rete: sovrarappresentazione dell’élite intellettuale, ma anche dei marginali. Nella mia esperienza è proprio l’interazione tra persone che provengono da ambienti sociali diversi che rende gli ambienti di partecipazione civica online così interessanti. E c’è un motivo: la diversità nella relazione produce innovazione. Il progetto SHWASHLOCK ha funzionato bene perché incorporava sia la conoscenza di prima mano che i senza fissa dimora hanno della loro condizione che l’accesso alle risorse e il capitale politico dei cittadini più abbienti. Queste condizioni sono difficili da riprodurre nelle arene politiche tradizionali, in cui le persone emarginate vengono di solito trattate come un problema e non come un soggetto portatore di soluzioni (o di parti di soluzioni) – e quindi si scoraggiano e abbandonano la discussione, o vi assumono un atteggiamento passivo.

Quindi, gli ambienti di partecipazione politica basati su Internet aumentano l’eguaglianza tra i cittadini? Dipende. Se si intende l’eguaglianza come diversità, di presa di parola da parte di tutte le categorie dei cittadini, la risposta è sì; e infatti il primo esperimento di politiche pubbliche online della storia ha scelto come obiettivo il miglioramento delle condizioni della fascia più debole della popolazione. Se invece la si intende come rappresentatività statistica, allora la risposta è no. Lo è dal 1993, quasi vent’anni fa. La discussione è chiusa, ed è inaccettabile usarla come scusa per bloccare l’accesso alla decisione pubblica di soggetti diversi dai “soliti sospetti” della politica tradizionale.

Alcuni propongono di introdurre correttivi per fare in modo che la partecipazione online sia rappresentativa dell’elettorato. La mia esperienza mi suggerisce che questo sarebbe un errore molto grave. Meglio, molto meglio, ascoltare l’elettore mediano attraverso i canali di partecipazione tradizionali e usare la rete per valorizzare il contributo di idee e di innovazione che può venire – che è sempre venuto – dagli esclusi: senza fissa dimora, poveri, disabili, giovani, precari, portatori di idee e stili di vita radicali, minoranze sessuali, etniche e religiose.

Le loro sono voci preziose perché, ripetiamolo, la diversità è terreno fertile per l’innovazione, e perché sono così pochi gli ambienti in cui possiamo davvero confrontarci alla pari. Internet ci permette di costruirne: non perdiamo questa occasione.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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