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Le piccole grandi rivoluzioni delle donne in Afghanistan

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Ci sono zone del mondo, e momenti della storia, che sono delle vere linee di faglia. Delle zone di rottura. Sto scrivendo questo post dall’Afghanistan (ma probabilmente andrà online al mio rientro, la comunicazione non è facilissima) dove sto cercando, grazie all’aiuto del Dipartimento di Stato USA, di capire cosa sta succedendo e cosa ne sarà di questo Paese.

Un attimo. Prima che lo facciate voi, lo dico io. È ovvio che quello che vedo è un parte della storia. Un punto di vista. Ed è anche vero il detto secondo il quale ci sono tre lati per ogni storia: il tuo, il mio e la verità. Ma vi assicuro che sto girando, sto guardando, sto parlando e – forse – qualcosa comincio a capirla.

Dicevo delle linee di faglia.

L’Afghanistan è una di queste. Non in senso geografico, ovviamente, ma in senso umano, sociale. È un luogo in cui ad un’enorme rottura (che per la verità dura da secoli, come dimostra la Storia) sta facendo seguito una resistenza umana incredibile. Anche questa è innovazione sociale.

Sto incontrando diverse storie interessanti, di afghane e afghani straordinari che stanno ridisegnando il futuro del proprio Paese proprio attraverso questa resistenza umana, sociale, culturale. Dal centro afghano di addestramento di uomini e cani antimine (ADC) alle Agenzie specializzate che ne supportano gli sforzi. Dalle scene di vita di strada (dove sono ovunque, ovunque, le tracce di quelle fottutissime mine) alle scene – appunto – del futuro dell’Afghanistan. Perché secondo me l’Afghanistan lo salvano le donne, i cani e chi li addestra.

Solo chi ha davvero a cuore il proprio Paese, infatti, si addestra a correre il rischio di saltare in aria per evitare che sia un bambino a farlo.

E poi c’è stata lei, Freshta Karimi, la fondatrice e direttrice della DQG. È la prima associazione non governativa afghana che fornisce assistenza legale gratuita alle donne che vogliono combattere la cultura del silenzio, ribellandosi ai mariti cui sono state date in sposa a dieci anni e che le hanno – molto spesso – violentate e seviziate per una vita. Freshta sprigiona un’energia incredibile; una calma energica e potente. Di chi forse sottovaluta che il futuro dell’Afghanistan passa anche dalle sue mani – e da quelle delle sue avvocatesse – che maneggiano penne e carte bollate nelle cause intentate per proteggere donne altrettanto coraggiose.

Ho incontrato una delle sue clienti. Ha inventato una scusa per il suo patrigno per venire ad incontrarci e a raccontare la sua storia. La vita si è accanita perversamente su di lei. Data in sposa a 13 anni ad un marito che l’ha subito considerata un oggetto, ha avuto una bambina con la sindrome di Down e con problemi di cuore. Il marito l’ha violentata e seviziata per anni. Mentre lo raccontava, il tono inizialmente calmo e dignitoso si è fatto rabbioso. Ma di una rabbia controllata, frutto di anni di abitudine al silenzio. Ha pianto orgogliosamente e ha sorriso timidamente quando le ho detto che è una donna coraggiosa e che il suo coraggio aiuterà tante altre ragazze a riprendere in mano la propria vita. Sa che è importante raccontare anche le piccole (ma allo stesso tempo enormi) storie come la sua.

Sono qui solo da pochi giorni; ma ho capito, ho visto, ho parlato, ho ascoltato. E non ci sono solo (tante) armi in giro; non ci sono solo gli elicotteri e le truppe (prima o poi vi parlerò del coraggio dell’esercito afghano e di come stia combattendo per riprendersi il proprio paese, ripulendolo dai talebani). L’Afghanistan verrà salvato non solo dalle truppe. Ma anche e soprattutto da queste donne straordinarie.

È importante rintracciare le briciole di resistenza umana. Che poi, briciole non sono… Sono macigni che, rotolando grazie a quanti li raccontano, diventano valanghe di umanità. Come la storia – straordinaria – di Mary Akrami, che ho conosciuto poche ore fa. Mary Akrami è una donna coraggiosa, un’attivista per i diritti delle donn. Nel 1999, durante il suo esilio in Pakistan ai tempi dei Talebani, ha fondato la sua ONG, il Centro per lo sviluppo delle capacità delle donne afghane (Awsdc) e una volta tornata a Kabul dall’esilio ha creato nel 2003 il primo rifugio per donne maltrattate, il Khana-e-Amn, la Casa della sicurezza.

Nel 2007 ill Dipartimento di Stato Usa le ha conferito il premio International Women of Courage. E continua a lottare ogni giorno. L’ho incontrata proprio nel rifugio, una bella palazzina nel cuore di un quartiere estremamente povero di Kabul. Era euforica, perché gli ultimi tre giorni li ha passati in trincea. Il ministro afghano della Giustizia, infatti, aveva rilasciato una dichiarazione secondo la quale i rifugi per donne sono luoghi privi di moralità e di perdizione.

Mary Akrami si è ribellata, ha alzato la voce, ha pubblicato comunicati stampa. Ha chiamato a raccolta la società civile. E le hanno dato retta. Gran parte del governo e tante associazioni. Con una luce tutta speciale negli occhi mi ha detto che anche una donna ospite del suo centro, violentata per anni dal marito, abusata, scappata dalla famiglia che l’aveva venduta si è fatta avanti e ha voluto raccontare la sua storia per testimoniare quanto sono importanti i rifugi come quello che l’ha accolta.

Mi piace citare una frase che lessi in una sua intervista tempo fa:

«I migliori talenti, nel mondo, ovunque, sono impegnati a costruire armi. Se venissero usati in modo migliore il mondo sarebbe un paradiso. E la pace non esiste se non c’è istruzione, che insegna agli esseri umani ad amare la vita. Le donne hanno sempre avuto un ruolo importante in questo senso, le madri sono in fondo la prima “istituzione” educativa nella società. E nella storia dell’Afghanistan ci sono molti esempi della loro capacità di risolvere dispute e conflitti, riconosciuta anche dagli anziani delle tribù».

È una donna che sa di vivere lungo una linea di faglia, Mary Akrami. Lotta ogni giorno. E ha lanciato un appello a Shoot4Change e alle tante volontarie e volontari che ogni giorno si impegnano a riportare alla luce storie sottovalutate, dimenticate, ignorate. Chiede che la sua storia, e quelle di tutti quelli come lei, non venga dimenticata.

«Perché se morissi o fossi costretta ad abbandonare il mio Paese, nessuno parlerebbe più dei diritti delle donne. E dobbiamo essere tutti uniti, combattere insieme, raccontare queste storie. Ed è importante bilanciare storie negative e storie positive come fate voi».

Ho promesso a Mary che non ci tireremo indietro e ho l’impressione che saremo in tanti a farlo. Che ne dite? Perché innovazione sociale non è necessariamente quella che intendiamo noi. È anche quella di queste donne straordinarie come Mary o Freshta, o come giovani maestre che insegnano – nelle sperdute province di Farah o Ghor – alle bambine che studiando posso sognare – e realizzare – un futuro vero, o come i giovani militari afghani che si arruolano per vincere la povertà, l’ignoranza e per difendere (da soli) il proprio paese o come chi si addestra a rischiare la vita per disinnescare le mine che continuano a far saltare in aria le gambe dei propri bambini. E tra qualche giorno vi parlerò di come Internet stia indebolendo i Talebani.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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