La ‘Smart City’ (o piu’ italianamente la citta’ intelligente) non e’ poi un concetto cosi’ nuovo. Durante gli ultimi 20 anni l’idea di una citta’ in cui le infrastrutture tecnologiche e digitali fossero sempre piu’ interconnesse con la fibra stessa del tessuto urbano, in senso sia geografico che sociale, ha cambiato nome molte volte. Prima “wired cities, poi “digital cities”, infine “smart cities”. Ora si comincia a parlare di “sentient cities”, ovvero di citta’ che come organismi viventi acquistano capacita’ sensoriali e cognitive . Ma quanto “smart” possono davvero essere le citta’ del futuro?
Inizialmente, l’idea della smart city era legata alla possibilita’ di raccogliere le grandi montagne di dati che la rivoluzione digitale e le tecnologie pervasive mettevano a nostra disposizione.
Soprattutto quei dati che possono essere raccolti in maniera passiva attraverso telecamere, sensori, registrazione delle transazioni economiche. Poi sono comparsi i dati generati ogni giorno dai navigatori satellitari, gli antifurti GPS sulle nostre autovetture, i rilevatori ambientali di inquinamento. Si immaginava che tutti questi dati potessero dare delle immagini dettagliate dello stato della citta’ come inquinamento, traffico, stato della viabilita’ ed efficienza energetica.
Da qualche anno poi possiamo contare sui dati generati dalla telefonia mobile, dai network sociali e dai microblogs come Twitter. Alla visione strutturale della citta’, possiamo aggiungere la mobilita’ individuale, l’interazione del corpo sociale con il tessuto urbano e valutare anche la discussione che se ne fa attraverso i social networks. Questi sono dati che contengono un’altra grande novita’.
Molti di questi dati sono condivisi volontariamente dai singoli individui. Condivisi attraverso le discussioni aperte su Twitter o Facebook, o ancora piu’ efficacemente attraverso strumenti di crowdsourcing. Come WAZE che permette di contribuire dati sul traffico in tempo reale dal proprio telefono mobile dotato di GPS. Per non parlare delle tante piattaforme collaborative di cittadini che vanno dalla rivelazione epidemiologica alle mappature dell’inquinamento. Come il progetto Everyaware, con rilevante leadership italiana, che sviluppa applicazioni android e Iphone e speciali sensori per la rilevazione dell’inquinamento acustico e dell’inquinamento atmosferico da parte dei singoli cittadini che vengono poi aggregate per fornire dati globali sulla citta’.
Per la prima volta questi dati interconnettono completamente l’individuo, le infrastrutture e la geografia urbana in un flusso continuo di informazione che diventa un vero sistema sensoriale della citta’.
Un sistema sensoriale che mette in primo piano la complessita’ dell’aggregato urbano, dove l’insieme e’ molto di piu’ che la somma delle singole parti. L’analisi in tempo reale di questa complessita’ e le interdipendenze del sistema citta’ ci fanno pero’ sperare di sviluppare nuovi modelli di urbanizzazione basati su dati quantitativi e di trovare soluzioni innovative per migliorare l’efficienza e la sostenibilita’ dell’aggregato urbano,.
Con questi intenti, alcune metropoli si sono dotate di “data analytics hub”, vere e proprie centrali di controllo che aggregano tutte le fonti disponibili di dati. La prefettura di Rio de Janeiro ad esempio, in collaborazione con IBM, ha creato un sistema cittadino che integra in un singolo centro di data analytics i dati provenienti da un grande numero di agenzie per il controllo del traffico, delle emergenze e le infrastrutture dei servizi .
Dobbiamo pero’ considerare il rischio che queste centrali di analisi dati possano trasformarsi in modelli tecnocratici che tralasciano altri fattori culturali e politici che sono importantissimi nello sviluppo armonico degli aggregati urbani. Per non parlare del rischio che usando anche i dati messi a disposizione dai cittadini non si trasformino in strumenti di controllo e sorveglianza della societa’. Esiste pero’ un antidoto a questi rischi: tenere aperti i dati, restituire l’informazione al cittadino e non tenerla chiusa nei centri di controllo.
In altre parole, in una citta’ veramente “smart”, i centri di analisi dati si devono trasformare in forme di dialogo e interazione col cittadino, in piattaforme di accessibilita’ ai dati istituzionali, in laboratori scientifici aperti. Non e’ un caso che citta’ come Londra (http://citydashboard.org/london/) e New York (https://nycopendata.socrata.com/) stanno definendo i primi rudimentali “city dashboard”, piattaforme dove ogni cittadino puo’ controllare lo stato della citta’ in tempo reale o accedere alle montagne di open data generati dalla citta’, pubblica amministrazione inclusa.
Tutto cio’, oltre a eliminare il rischio della cultura della “sorveglianza” sul cittadino, genera una naturale responsabilizzazione dell’individuo e del corpo amministrativo della citta’ attraverso una reale trasparenza in tempo reale della vita cittadina.
In Italia c’e’ un enorme bisogno di “smart city”. Di citta’ che sappiano gestire, analizzare e condividere con il cittadino la loro vita quotidiana in modo innovativo e trasparente, diventando quindi luoghi che favoriscono anche lo sviluppo economico intelligente. Questo paese e’ ricco delle capacita’ tecnologiche e della conoscenza necessarie affinche’ ogni citta’ diventi “smart”. In molti casi, l’ingrediente che come al solito sembra mancare e’ la volonta’ politica che dia inizio a questo processo di trasformazione.