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L’Empatia: Terra di innovazione e cambiamento

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Non smetto mai di meravigliarmi quando ascolto storie di percorsi che portano da un traguardo ad un altro. Mi meravigliano le transizioni, lente o repentine, gli imprevisti, i cambi di rotta, le evoluzioni interiori, la dedizione, la curiosità. Spesso tante cose si dimenticano e i bilanci di fine anno diventano la fotografia del presente che non racconta il backstage e i suoi faticosi, felici, dolorosi, entusiasmanti, piccoli passi. Sto cercando di coltivare la pratica di ricordare e celebrare quei piccoli passi, mi aiuta a capire perchè sono dove sono, mi aiuta a ridefinire la rotta.

I piccoli passi non sono necessariamente traguardi tangibili, sono anche i nodi invisibili di una rete interiore che fa da spina dorsale al nostro io, e che tessiamo ogni giorno, a volte consapevolmente a volte inconsapevolmente, attraverso studio, ricerca, attraverso una conversazione, un dibattito, una riflessione.

L’anno appena trascorso è stato più di tutto un anno di invisibile e laboriosa tessitura e nella mia rete nuovi nodi hanno cominciato a prendere forma; altri sono diventati ancor più centrali, dando vita ad una miracolosa magia di collegamenti inaspettati.

L’Empatia è stata una delle cose entrata più volte, con insistenza e forza, nella mia vita professionale, nella pratica giornaliera del design, nel costruttivo dibattito sul significato di innovazione e leadership. Spesso viene erroneamente percepita come un sentimento romantico e naïve ed invece credo sia tutto fuorchè questo.

L’Empatia è uno strumento potente in grado di generare evoluzione e cambiamento, di farci intravedere nuovi orizzonti, nuove opportunità, bisogni latenti destinati a diventare idee innovative.

La sua etimologia sembra racchiudere l’essenza di ciò che vuole dire essere uomini.

Come raccontava Wilhelm Dilthey, filosofo e psicologo tedesco, la parola empatia descrive quello straordinario processo mentale attraverso cui l’individuo si immedesima in un altro essere vivente, arrivandone a conoscere sentimenti e pensieri. Non vuole dire simpatia, ossia provare dispiacere per la sofferenza altrui, ma vuole dire essere l’altro.

Nel suo libro La Civiltà dell’Empatia, che dopo quattro anni è ancora nella mia top ten, Jeremy Rifkin ci guida attraverso un viaggio entusiasmante dimostrando come le recenti scoperte nel campo della neurologia e delle scienze dell’età evolutiva ci costringono a rivedere l’inveterata convinzione che gli esseri umani siano per natura materialisti e spinti dall’interesse personale. Siamo membri di una specie profondamente empatica e questa interpretazione della natura umana apre le porte ad un’avventura assolutamente inedita.

Abbiamo scoperto l’Homo empaticus, we are wired for empathy, siamo programmati per l’empatia.

Nel 1996 il gruppo di ricerca dell’italiano Giacomo Rizzolatti pubblicò dei risultati che provocarono un vero e proprio terremoto nel mondo accademico. I ricercatori battezzarono la loro scoperta neuroni specchio definiti in seguito neuroni dell’empatia. Questi neuroni consentono all’uomo di mettersi nei panni dell’altro e sperimentare pensieri e comportamenti altrui come se fossero propri. Secondo Rizzolatti, ciò che è più sorprendente è che i neuroni specchio ‘ci permettono di entrare nella mente degli altri non per un ragionamento concettuale, ma attraverso una simulazione diretta: attraverso la sensazione, non il pensiero’.

Negli ultimi sei anni mi sono dedicata allo studio e comunicazione di un pezzo di scienza che credevo dovesse essere accessibile a tutti. E’ stata una sfida che oscillava tra l’amore folle per la bellezza del pianeta e la consapevolezza che la natura è essenziale per la salute e la crescita dell’economia, della società, degli individui. Il messaggio risuonava, l’attenzione per quello che facevo cresceva e cominciavo a diventare consapevole che quello che apriva le porte del dialogo e della comprensione non erano solo le immagini chiare o le parole giuste, ma la comunicazione della passione che provavo per la mia causa. Quella passione è universale e di fronte a quella passione il vostro audience si fermerà, anche se solo per un attimo, e penserà che vale la pena ascoltare. Di fronte a quella passione ho visto empatia negli occhi di chi guarda, empatia per la passione che io provo, per il mio amore verso il pianeta, per il mio desiderio di comunicare, per il mio sforzo, e per un attimo è forse divenuto anche il loro amore, la loro passione, il loro sforzo. Questa è la prima lezione che ho imparato: ho capito che l’empatia si può trasformare in un momento di pura, perfetta comunicazione che oltrepassa le parole e genera seguito ed attenzione. Possiamo non condividere al cento per cento il pensiero di chi parla, ma per uno slancio empatico possiamo vivere e sentire l’amore e la passione per quella causa. E quell’amore infiamma, muove e contribuisce al cambiamento.

Abbiamo la fortuna di poter attingere da una risorsa fenomenale che custodiamo da qualche parte nel nostro cervello, e dobbiamo usarla per immergerci in mondi, gruppi, possibili utenti vicini o lontani. Questa la mia seconda lezione: essere programmati per l’empatia non garantisce che sentiamo esattamente cosa l’altro prova o sperimenta, spesso è necessario smettere di stare a guardare e diventare l’altro.

Si, diventare l’altro per essere sicuri che stiamo superando ogni pregiudizio, ogni facile presa di posizione che potrebbe non avere riscontro, ogni user-testing condotto a norma trattando l’audience come una classe di topi da laboratorio in camice bianco. Ho collezionato storie straordinarie che sono state pugni nello stomaco e che mi ricordano di non abbassare mai la guardia, di non fare il mio mestiere solo sulla base della mia esperienza o di quello che penso sia probabile o improbabile, ma di scendere nell’arena vivendo la scomoda vulnerabilità ed incertezza di scoprire cose che non mi aspettavo ma che potrebbero diventare un’ idea, un prodotto straordinario.

Patricia Moore è una designer che occupa i primi posti in tante graduatorie, dalle 100 donne più influenti in America ai 40 designer più socialmente dedicati al mondo. E la sua storia è di quelle che ti lasciano senza fiato, ma anche un esempio di come la pratica dell’empatia possa diventare il motore che permette alla società di evolvere, prima di tutto attraverso shift culturali e poi attraverso prodotti geniali.

Agli inizi della sua carriera, anni ’70, unica donna scelta nel team del leggendario industrial designer Raymond Loewy a New York, era alle prese con il suo secondo progetto, il design di un aliscafo, e si rese conto che il veicolo avrebbe funzionato per un giovane adulto ma che diverse aree sarebbero state un incubo per un utente non esperto e non in perfetta forma. Quel pensiero divenne un catalizzatore mentale nella testa di Patricia ed ha segnato per sempre la sua carriera. Per un periodo di tre anni, tra i 25 e i 28 anni di età, Patricia ha percorso le strade di centinaia di città in America e Canada, professionalmente travestita come una donna di 80 anni. Con il suo corpo alterato per sentire ciò che una donna di ottanta anni può sentire, è entrata in quel mondo a cui da designer voleva dare delle risposte. Un viaggio che prima che fosse finito l’ha scaraventata su un marciapiede di Harlem, picchiata ed in pericolo di vita, con indosso il volto, il corpo, i vestiti di Pat ottantenne. Ho avuto la fortuna di ascoltarla parlare in pubblico più di una volta negli ultimi tre anni, quei discorsi sono diventati momenti indimenticabili nella mia carriera di designer. Il suo libro Disguised è, con Rifkin, nella mia top ten.

La storia di Patricia non è l’unica ad offire un esempio di ciò che Roman Krznaric definisce experiential empathy. George Orwell, John Howard Griffin offrono esempi simili, altrettanto straordinari e Roman ci invita ad una riflessione che sarà un nodo importante nella tessitura delle rete che veicola i miei pensieri: outrospection. Socrate affermava che per vivere una vita saggia dobbiamo conoscere noi stessi. Si tende ad usare questo approccio pensando che il focus è su noi stessi, che l’obiettivo è l’introspezione, ma abbiamo gli strumenti per affermare che nel ventunesimo secolo conoscere noi stessi è un traguardo raggiungibile attraverso l’outrospezione, attraverso l’essere e scoprire gli altri con empatia.

Dobbiamo utlizzare tutta l’immaginazione possibile quando pensiamo a chi sono gli individui e i gruppi nei quali crediamo sia importante immergerci in modo empatico, mentalmente e praticamente. In quell’esercizio potrebbero nascere intuizioni, idee, considerazioni che potrebbero generare trasformazione politica, sociale, economica. Dobbiamo coltivare l’arte della conversazione che può essere uno strumento di scoperta, di ponte culturale. Dobbiamo empatizzare nello spazio ma anche nel tempo, con le generazioni future, perchè è lì che possiamo definire chi vogliamo essere e in cosa vale la pena investire il nostro tempo e le nostre risorse.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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