L’impresa punti sulle relazioni, perché ascoltare significa crescere

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Pensate alla scuola. Ricorderete di certo quando alle elementari, ma nello stesso modo anche alle medie, al liceo e pure all’università, avete dovuto studiare mnemonicamente una qualsiasi materia. Prendiamo la storia: la professoressa entra in classe, spiega per esempio la Prima Guerra Mondiale, spesso leggendo ciò che sta scritto sul libro, poi noi torniamo a casa, studiamo quelle pagine, le ripetiamo e tornati in classe cerchiamo di rispondere a tutte le domande dell’interrogazione. Risultato: chi ha un’ottima memoria a breve termine prende voti alti, pochi ricordano nel tempo ciò che hanno studiato.

Oggi la classe sta cambiando, muta il concetto di lezione e con esso la disposizione stessa della classe

Questa classe fin dalle elementari – e in nord Europa ci sono diversi esempi – non è più costruita con una cattedra e dei banchi disposti frontalmente, ma diventa libera.

Nemmeno circolare, ma libera di prendere le sembianze della tipologia di lezione, di alunni, di materia, di emozioni che caratterizzano quella particolare giornata o quel tema. La tecnologia favorisce il passaggio dalla lezione frontale a quella relazionale: all’interno di un ambiente digitale protetto, dove trovo materiali certificati, scopro da solo la Prima Guerra Mondiale, guardo video, leggo articoli, testi, scorro fotografie. Poi in classe mi confronto con i compagni e con la professoressa, che diventa moderatrice di un ragionamento che si co-costruisce insieme. Con molta probabilità quegli argomenti mi rimarranno in testa per sempre, perché li ho fatti miei. E vengo valutato sulla mia capacità di approfondimento, ragionamento, confronto, relazione e ascolto.

Già, l’ascolto. Viviamo un’epoca in cui il rumore di sottofondo spesso sovrasta le singole voci e da ronzio si fa forte e costante nelle nostre orecchie.

È così che noi abbiamo smesso di ascoltare, di interessarci agli altri che ci stanno attorno, convinti di sapere e che il nostro sapere sia di diritto superiore a quello altrui. Abbiamo costruito una società autoreferenziale ed egoriferita, in cui tutti sentiamo il diritto di parlare, di dire, di fare. Ma ci dimentichiamo di ascoltare.

L’ascolto nella social city

Lo scorso anno alcuni miei studenti in IED hanno lavorato con l’Assessorato alle poltiche sociali del Comune di Milano: il brief di tesi era il ripensamento delle politiche sociali affinché coinvolgessero maggiormente i cittadini, fossero essi bisognosi di ricevere assistenza o nella possibilità di contribuire a quelle stesse politiche che evidentemente non possono più essere solo gestite dalle Istituzioni. Era il novembre 2013 quando i ragazzi, studiando meccanismi di ascolto dei bisogni, hanno incontrato sul loro cammino la social street, l’idea di Federico Bastiani che nel settembre 2013 in via Fondazza a Bologna ha creato un gruppo Facebook per socializzare con i vicini di casa.

Semplice, quasi banale. Ma qualcosa di dimenticato: varchiamo i portoni dei nostri condomini e a fatica riceviamo un saluto da chi incontriamo, le riunioni condominiali tirano fuori il peggio delle persone, suonare al vicino per chiedere un po’ di sale grosso per la pasta è una pratica ormai inusuale.

La social street di via Fondazza a Bologna

La social street risponde a una ritrovata esigenza di socialità, condivisione, confronto: mi presti un trapano, ti aiuto a montare una mensola, dividiamo la babysitter, facciamo giocare i bambini, andiamo insieme a correre al parco o, perché no, organizziamo una cena di vicinato. I miei studenti hanno analizzato il caso e visto crescere le social street: a novembre 2014 se ne contano più di 450 e il fenomeno da italiano inizia a farsi internazionale. Nella loro di tesi, SocialMI, hanno immaginato la rete di social street come base di una social city in cui si integrano politiche pubbliche, politiche private e azioni spontanee, tutto coordinato attraverso unioni proattive di cittadini in singole social street che, da fenomeno dal basso, diventano perno centrale di un nuovo sistema solidaristico. Che è ascolto e relazione.

La tecnologia, gli smartphone, i social media, l’immediatezza della comunicazione continua rendono possibile tutto questo e amplificano la portata di una cosa tanto semplice quanto dimenticata: la relazione. Nel mio ultimo libro, È facile cambiare l’Italia, se sai come farlo (edito da Hoepli), sostengo che stiamo andando incontro al passaggio da una money-centered-economy ad una human-centered-society, in cui l’essere umano torna al centro della società. Stiamo cioè riprendendo ad ascoltare. Gli altri, e noi stessi.

L’impresa che ascolta i “consumattori”

Cosa ha a che fare tutto questo con l’impresa, l’economia, la crescita, lo sviluppo? Credo sia opportuno sgombrare il campo da un errore commesso da molti: la crisi che stiamo vivendo, deflagrata tra fine 2008 e inizio 2009 attraverso uno scoppio economico e finanziario e a cui troppi cercano soluzioni economiche e finanziarie, ha radici più profonde che sono culturali. Per risolverla, quindi, dobbiamo mettere in atto soluzioni culturali che di per sé necessitano tempi più lunghi. Se però non facciamo questo salto concettuale, non soltanto non usciamo dalla crisi, ma anzi la continuiamo ad alimentare. Se quindi non mettiamo l’ascolto come parola centrale nel ripensare la nostra società, non usciamo dalla crisi.

Ecco perché mi rivolgo a chi fa impresa, a chi si occupa di comunicazione, a chi apre una start up, a chi crede che abbia senso ricostruire l’economia di questo Paese: ascoltate. Ascoltate i consumatori – o consumattori -, secondo i principi che Giampaolo Fabris ha definito come societing, il marketing che si basa sulle relazioni, favorisce la collaborazione, mette in primo piano l’esperienza. Molti hanno sostenuto che tra Fabris e Philip Kotler, padre del marketing moderno, ci fosse parecchia distanza, ma oggi è proprio Kotler a ribadire – lo ha fatto poche settimane fa nel convegno che ha organizzato a Tokyo – che sono storie, emozioni e relazioni i motori del rapporto tra marca e consumatore. E io credo si stia andando ancora oltre: per questo l’ascolto del cliente, dell’utente, del consumatore diventa non soltanto un mezzo per vendere il prodotto, ma per costruire una relazione che permetta ad aziende e clienti di disegnare insieme una nuova società. Tanto che, nel tempo, chi non rispetta alcuni valori sempre più sentiti – inclusione, condivisione, merito, trasparenza per citarne alcuni – rischia di essere messo da parte dai consumatori e dalla società stessa. Capisco che per alcuni ciò che spiego appaia utopia: un’azienda che concorre al miglioramento della società. Ma dai!

Invece io sono fermamente convinto che sia l’unica strada quella che unisce inclusione e innovazione sociale con il profitto e lo sviluppo del business.

D’altronde quando si parla di social caring, di internal branding, di social collaboration, non si fa altro che dire che il futuro è partecipato, condiviso, co-costruito. E che se non ascoltiamo i bisogni di chi ci sta attorno e compra i nostri prodotti o fruisce dei nostri servizi, non avremo più clienti da servire né persone con cui dialogare. Ascoltare per ottenere fiducia e creare empatia, puntare sull’empatia per sviluppare relazioni, alimentare relazioni per fare comunità. È con la politica delle relazioni che possiamo crescere: per le nostre aziende, per noi, per la società in cui vogliamo vivere.

P.S. Devo ringraziare Luca Grigolli e Massimo Gnocchi di B Fluid che, coinvolgendomi in un incontro sul tema dell’ascolto, hanno favorito questa mia riflessione. E con loro grazie a Jacopo Boschini, Linus e Beppe Severgnini, partner di quello stesso incontro: ascoltandovi ho sviluppato in maniera più ampia i miei pensieri.

ALESSANDRO RIMASSA

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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