Poche settimane fa l’FBI ha diramato un comunicato dove si mettevano in guardia le forze dell’ordine mondiali contro i reati cibernetici, dalla clonazione delle carte di credito fino all’utilizzo dei social media da parte dello Stato Islamico, l’ISIS, per incitare i propri seguaci alla violenza. L’internet diventa ogni giorno più opaco, dark, questo il termine usato dall’FBI. E perché sorprenderci?
Se è vero che la vita virtuale di cui tutti noi oggi godiamo è un’estensione di quella reale, allora è normale che delinquenti e terroristi ne facciano parte e ne approfittino. Il problema vero è come gestire la propaganda terrorista in rete.
Prendiamo l’ISIS, lo Stato Islamico, un’organizzazione che ha dimostrato di conoscere bene le più moderne e sofisticate tecniche della scienza della comunicazione.
Ed infatti ha investito energie straordinarie nella penetrazione dei social media per fare proselitismo tra i sui potenziali seguaci e per terrorizzare tutti gli altri. L’ISIS sa bene che in un mondo in cui il ciclo mediatico di ventiquattr’ore ha trasformato giornalisti e lettori in una sorta di drogati dell’evento scioccante e straordinario, il valore della verità di una notizia passa in secondo piano rispetto alla sua capacità di impressionare. Ed ecco perché fino a poche settimane fa la stampa ufficiale non ha fatto che divulgare le immagini più agghiaccianti e cruente che l’ISIS metteva in rete attraverso i social media.
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Ancora più sofisticato dal punto di vista psicologico è il modo in cui tali immagini sono state captate dai media tradizionali: attraverso la creazione di specifiche app da parte dell’ISIS.
“Una delle iniziative più riuscite dell’Isis è un’app per Twitter chiamata in arabo L’alba delle liete novelle, o semplicemente Alba. L’app, un prodotto ufficiale dell’Isis promosso dai suoi maggiori utenti, “è pubblicizzata come un modo per tenersi aggiornati sulle ultime notizie sul gruppo jihadista”, scriveva l’Atlantic Magazine all’inizio dell’estate.
Tra le campagne mediatiche sui social media di maggior successo c’è quella condotta durante i mondiali di calcio quando lo Stato Islamico ha usato hashtag come #Brazil2014, #ENG, #France e #WC2014 che gli hanno permesso di accedere a milioni di ricerche su Twitter sulla Coppa del Mondo. Tra le immagini più cruente c’era una partita di calcio giocata con le teste teste mozzate degli oppositori dell’ISIS fatta circolare alla vigilia dell’inizio dei mondiali di calcio in Brasile.
A differenza delle organizzazioni del passato, tra cui anche al Qaeda, oggi lo Stato Islamico è in grado di fare un uso tecnologico delle barbarità commesse per promuovere la propria causa, semplicemente inserendole tra le notizie dal mondo.
Fonte: Guardian.co.uk
La tecnologia moderna offre dunque ad organizzazioni armate contemporanee la possibilità di divulgare la propaganda della violenza a livello globale. Durante la guerra del Kosovo, negli anni novanta, furono commesse analoghe atrocità, compresa la decapitazione di bambini, con la cui testa giocare a pallone davanti ai loro genitori. Ma i serbi non avevano a disposizione i mezzi per pubblicizzare ampiamente le testimonianze delle loro atrocità. Discorso diverso va fatto per il video della decapitazione di James Foley che ha avuto una diffusione “virale” nel giro di poche ore nonostante si sia cercato di bloccarlo. In passato il messaggio della paura era limitato a un pubblico locale, non globale. L’assenza dei social media, e la preferenza delle reti di informazione e dei loro inserzionisti a evitare di mostrare scene di guerra incruente, ha protetto il mondo dall’orrore degli atti e dei crimini perpetrati in Kosovo.
Oggi le atrocità dello Stato Islamico ci raggiungono in tempo reale sui social media e vengono trasmesse da un sistema mediatico sempre all’inseguimento delle notizie riportate su Facebook, YouTube e altri siti.
Anche quando si ricorre alla censura, come è avvenuto nel caso del video dell’esecuzione di Foley, i social media sanno aggirarla senza difficoltà. Quando YouTube ha censurato quelle immagini l’ISIS si è servito di Diaspora per divulgarle. La domanda che molti si pongono è la seguente: è giusto usare la censura, pur sapendo che non funziona? L’idea che chi di mestiere cerca la verità si debba servire della censura è ripugnante. E’ però anche vero che spesso è impossibile discernere tra propaganda e fatti reali. Se vogliamo difendere la libertà di stampa allora il lettore dovrà sviluppare una maturità nuova, dovrà leggere certe notizie in modo diverso e documentarsi sempre per verificarle.
LORETTA NAPOLEONI