L’Italia e la rete della finanza virtuosa che sostiene l’innovazione sociale

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Mentre, dopo il pronunciamento degli elettori, si cerca una maggioranza per formare un governo stabile, la drammatica crisi del Paese, da anni in una spirale recessiva, richiederebbe una agenda ben più ardita e innovativa.

La debolezza del sistema Italia affonda in un modello produttivo e sociale non più in grado di generare ricchezza e garantire, al medesimo tempo, coesione sociale. Le possibilità che abbiamo di invertire la spirale discendente nella quale ci siamo avvitati, dipendono dalla capacità di innovare profondamente quei settori dell’economia e della società che, negli ultimi anni, sono sembrati impermeabili alle trasformazioni.

A livello mondiale, tra i grandi imputati della crisi siede, già da qualche tempo, la finanza. Da Lehman Brothers, passando per la crisi del sistema bancario spagnolo, c’è un ampio consenso sulle distorsioni prodotte da un pezzo, fosse anche minoritario, del sistema finanziario mondiale.

Una finanza tossica che ha rimosso dalle sue priorità il sostegno alla produzione e al consumo, per gettarsi nell’ossessiva ricerca di attività speculative.

E tuttavia ci sono oggi settori del mondo finanziario, forse anche in parte “pentiti” dagli eccessi speculativi, che stanno sperimentando nuove strade legate all’ “Impact Investment“, dove gli investimenti generano un impatto sociale ed ambientale misurabile. L’Impact Investing può riguardare sia mercati emergenti sia contesti avanzati. L’ambizione è quella di provare a trasformare – anche solo un poco, i mercati finanziari – come ama ripetere spesso Judith Rodin, la presidentessa della Rockefeller Foundation che ha lanciato la rete dei fondi GIIN (Global Impact Investment Network), a cui Uman Foundation è associata. Una rete di fondi lanciata nel 2007 -che in pochi anni è più che quadruplicata- e che oggi conta oltre 200 social Impact funds.

In Italia poi la natura “difensiva” del nostro modello di risparmio, tacciata spesso come retaggio di arretratezza del sistema creditizio, ci ha parzialmente messo al riparo dalla grande mareggiata, che ha spazzato via alcuni dei più grandi colossi finanziari, come fossero esili fuscelli.

E tuttavia è proprio tra le foto sbiadite dell’album di famiglia del sistema bancario italiano che si possono trovare alcuni antidoti alla crisi attuale.

Penso alla dimensione solidaristica che fu alla base della nascita del sistema di credito rurale e cooperativo, senza il quale il nostro modello produttivo non sarebbe mai potuto crescere. La sfida è quella di saper rideclinare quei valori nella complessità delle relazioni sociali ed economiche di oggi. Uno sforzo che deve essere opportunamente accompagnato e sostenuto a livello istituzionale.

Torniamo, dunque, al silenzio assordante dei programmi delle coalizioni su questi temi. Sul terreno dell’innovazione e della finanza sociale.

L’Italia ha bisogno fortemente che le istituzioni favoriscano l’affermarsi della finanza sociale, e lo facciano strategicamente costruendo una prospettiva sistematica.

Il governo laburista di Tony Blair cercò di affrontare la questione, più di un decennio fa, istituendo la Social Investment Task Force (SITF).

Il coordinamento della SIFT venne affidato al “padre del venture capital” britannico: Sir Ronald Cohen, un finanziere di origine egiziana, avvicinatosi negli anni ’90 al New Labour, dopo aver lasciato il partito liberale.

Il lavoro della SITF partiva dall’idea che gli sforzi, pubblici e privati, per contrastare i fenomeni di disuguaglianza in un contesto avanzato, come quello UK, fossero divenuti inadeguati. Le raccomandazioni contenute nel rapporto della SITF suggerivano interventi su diversi livelli.

Penso al credito d’imposta per favorire la diffusione delle Community Development Finance Institutions, entità attraverso cui sostenere la crescita di quelle comunità che sono escluse dai tradizionali circuiti finanziari.

A più di 10 anni di distanza dall’istituzione della Task Force, il settore del Social Investment, pur lontano da una piena maturità, è in sensibile crescita, sia per quantità di risorse raccolte, sia per numero di operatori.

Non a caso il tema degli investimenti sociali fu inserito nelle agende delle principali forze politiche britanniche, durante le elezioni del 2010, con un’impostazione fortemente bipartisan. Un pezzo dell’architrave su cui si regge il progetto della Big Society del Primo Ministro Cameron è imperniata sul Social Investment. La Finanza sociale, del resto, è parte integrante della Good Society di Ed Miliband. Dentro questo sforzo istituzionale per reinventare gli strumenti a sostegno dei settori più fragili della società, vi sono alcune esperienze, come i Social impact Bonds (SIB), che meriterebbero un serio approfondimento.

In tempi difficili per i bilanci della Pubblica amministrazione, strumenti come i SIB potrebbero concorrere a sostenere la spesa sociale, all’interno, però, di una gestione più matura ed attenta delle risorse.

Oppure, perché non provare a sostenere la nostra impresa sociale attraverso la venture philanthropy? Far in modo, così, che gli strumenti più raffinati della finanza, da cui è scaturita l’esperienza della Silicon Valley, si mettano al servizio dell’innovazione sociale e di una filantropia matura.

Seppur lo stato sociale inglese sia profondamente diverso dal nostro, il tema della sostenibilità del modello di welfare è una gigantesca questione sulla nostra strada. Comprimere risorse, e di conseguenza diritti, non può essere la soluzione, che deve essere cercata nel terreno della innovazione.

Di tutto ciò in questa orribile campagna elettorale, e con poche eccezioni, non si e’ discusso. Ma tutto ciò dovrà necessariamente essere oggetto di un’ agenda di governo innovativa.

Anche per questo un anno fa è nata Uman Foundation per promuovere un capitalismo basato sulla capacità di costruire innovazione sociale e finanziaria, e favorire la connessione tra il mondo privato e quello sociale.

Mi auguro, sinceramente che questa sfida venga raccolta dalla futura maggioranza di governo. Occorre costruire anche in Italia una task force per la finanza e l ‘innovazione sociale – come fece il governo laburista di Tony Blair – che sia in grado di giungere ad indicazioni operative per costruire un clima favorevole all’impresa sociale italiana. Forse è tardi, ma come recita un proverbio africano: “forse il momento migliore per piantare questo albero era 20 anni fa, altrimenti il momento migliore è ora”.

GIOVANNA MELANDRI

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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