L’Italia non trattiene i giovani di talento: Bonatti come Capobianco

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«In fondo, Walter deve ricordarsi che quando l’abbiamo portato con noi era ancora un balilla». Il Walter in questione, all’epoca aveva 23 anni. E “balilla” stava per ragazzino, che deve saper stare al suo posto. Un piccolo mondo antico, di “veci” e “bocia”. Che in Italia ancora non è del tutto tramontato. Ventitré anni è l’età che avevano Sergei Brin e Larry Page nel 1996, quando si preparavano a cambiare il nostro mondo, lanciando l’anno dopo Google. La stessa età che aveva Mark Zuckerberg, nel 2007, quando annunciò il lancio di Facebook Platform, piattaforma di sviluppo per programmatori ideata per creare applicazioni interne a Facebook, che aveva tenuto a battesimo a vent’anni.

Ventitré anni aveva pure Fabrizio Capobianco, oggi presidente di Funambol, azienda ponte fra Italia e USA di grande successo a Silicon Valley, quando come giovane ingegnere girava per le aziende italiane a metà anni Novanta, ripetendo come un mantra che il futuro del business era su Internet.

«Non mi rispondevano che non era vero. Mi dicevano: cosa vuoi sapere tu, che hai 23 anni?», ricorda Fabrizio, oggi alla ribalta anche con una nuova startup, TOK.tv.

In un paese che ancora non sa scrollarsi di dosso il vizio suicida di mortificare i propri talenti, pure con insensate gerarchie anagrafiche, è a Walter, che 23 anni li aveva nel 1954, che vogliamo rendere omaggio. Oggi, 13 settembre, a due anni dalla sua morte.

Era il migliore, il più forte, oltre che il più giovane, Walter Bonatti (1930-2011) – nella foto in bianco e nero, con Eric Abram sul K2 (1954), qui sotto qualche anno fa – straordinario scalatore ed esploratore bergamasco, quando fu tra i protagonisti di un evento storico: la conquista della vetta del K2 da parte di una spedizione italiana.

Ma in quelle pagine destinate ad entrare nei libri, nella storia che aveva emozionato e restituito orgoglio ad un Paese ancora segnato dal disastro della guerra, Walter era entrato con una macchia. In vetta alla seconda montagna più alta del mondo erano arrivati due veterani, Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, lanciando al ritorno una grave accusa: la cima l’avevano dovuta conquistare senza le bombole d’ossigeno, consumate da Bonatti. Che aveva raccontato una versione opposta, terribile.

Salito con il pakistano Amir Mahdi, per portare loro le bombole, giunto stremato all’imbrunire aveva scoperto che i due avevano spostato il campo dal punto prefissato (forse temevano che unendosi a loro potesse precederli in vetta?). Si era sentito gridare da lontano di lasciar lì le bombole e tornare indietro: troppo stanchi per farlo, lui e il pakistano avevano dovuto bivaccare di notte in condizioni terrificanti e senza tenda o sacco, semicongelati, sopravvissuti solo grazie ad un fisico eccezionale.

Anche se a Mahdi quella notte era costata poi l’amputazione di diverse dita.

A 23 anni Bonatti era il migliore. Ma a lui toccò un ruolo subalterno e l’accettò, in quella spedizione organizzata con rigido stile militare e autoritario da Ardito Desio, che negli anni rifiutò sempre di rivedere la relazione ufficiale di quell’impresa, che gettava un’ombra sul più giovane. Segnato profondamente da quell’esperienza, Walter Bonatti compì negli anni seguenti una fantastica serie di imprese come scalatore ed esploratore, spesso in solitaria, realizzando bellissimi reportage in diversi angoli impervi del mondo.

Solo nel 1994, analizzando delle foto recuperate tra quelle scattate in cima al K2 si scoprì la prova che Bonatti aveva detto la verità: Compagnoni e Lacedelli avevano conquistato la vetta utilizzando le bombole, che dunque non erano state scaricate. Ci vollero altri dieci anni perché il Club Alpino Italiano modificasse la relazione ufficiale di quell’impresa, restituendo pieno onore al ruolo di Bonatti nel 2004, cosa che la Società Geografica Italiana fece nel 2008, chiudendo a quasi 54 anni di distanza una vicenda “di confusione, tradimento e spudorata ipocrisia come nessun altra nella storia dell’alpinismo”, come scrisse sulla rivista “Climbing” Rob Buchanan. Altro che “balilla”, come, secondo il Giornale, Compagnoni aveva definito Bonatti.

Oggi ammiriamo lo spirito d’impresa di chi sa sfidare le frontiere dell’innovazione, creando nuovi prodotti per un mondo che cambia. Questa sfida costante ha disperato bisogno di essere alimentata da modelli, esempi che siano d’ispirazione, non necessariamente hi-tech. E da storie, come quella di un uomo eccezionale, che ha dedicato la vita ad una sua personale sfida. Ai limiti imposti dalla natura, alle capacità fisiche e mentali dell’uomo. Ma anche a stereotipi culturali che mortificano il merito, a costo di nascondere la verità, creando gerarchie che penalizzano i migliori, specie se sono i più giovani.

Mi piacerebbe che “23” diventasse un pretesto, per raccontare ai più giovani la storia di Bonatti e dar loro un motivo in più per rivendicare attenzione e rispetto nell’Italia di oggi. Per questo ne scelgo tre, di italiani nati nel 1990, oggi ventitreenni, che mi stanno a cuore. Guarda caso, al momento fanno tutti e tre la spola con l’estero.

Il primo è Valerio Natale, ragazzo umbro, tornato proprio oggi da Bruxelles: è grazie a lui che un mio articolo quando stavo a Reuters fece il giro del mondo in molte lingue, raccontando nel 2004 come a 14 anni, con l’incoscienza di chi ancora non ha soffocato i propri sogni con il trito “non l’ha mai fatto nessuno” quel ragazzino era riuscito a dare una mano, dall’Italia, ai sopravvissuti dello tsunami in Asia, convertendo con successo il suo sito dedicato agli appassionati dei Simpson in una piattaforma di ricerca dispersi.

Il secondo, bergamasco come Bonatti, è tra gli autori di CheFuturo!: Davide Dattoli, appena rientrato da San Francisco che, come ha raccontato su Repubblica Riccardo Luna, ha realizzato con successo in Italia la sua fantastica idea di rete di coworking, lanciando la rete dei Talent Garden, oggi estesa in sette città.

Il terzo si chiama Alessandro e si sta facendo le ossa con uno stage a Londra, dopo una tesi al King’s College su terrorismo islamico e social media. Beh, ha pure il mio cognome, visto che è Bonzio jr. E forse è lui che ha ispirato questa riflessione.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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