C’è uno spot cinese che ultimamente ha fatto arrabbiare tutti. Una ragazza asiatica mette in lavatrice un ragazzo di colore. Lo pigia bene dentro al cestello e, quando il ciclo di lavaggio è finito, lo tira fuori. Ma attenzione, c’è una sorpresa. Il ragazzo non è più nero: è diventato asiatico anche lui.
Il popolo dell’internet (e non solo) si è ovviamente arrabbiato molto: la pubblicità è razzista, chiaro. Quasi come era razzista lo spot originale (tutto italiano), in cui però la ragazza (caucasica) metteva a lavare il marito (magro, bianco e bruttino) con una confezione di colorante nero, e si ritrovava alla fine con un bel maschione tutto nerboruto, muscoloso e sì, ovviamente di carnagione scura.
STORIA DELLE PUBBLICITA’ RAZZISTE
Ma nonostante l’ossessione orientale per la pelle bianca, e quella nostrana per il “coloured is better” (versione soft del più audace e famoso “once you go black, you never go back”), il fenomeno del razzismo, soprattutto nei confronti delle persone di colore, nei media e nella comunicazione non è una novità.
È vecchio come l’advertisement e si è fatto strada nelle nostre vite grazie al cinema, alla cultura pop, alla televisione e all’America. Quel Paese che con i suoi prodotti e le sue industrie da sempre ci ispira, ci suggerisce, ci guida, ci informa, ci cambia. Non ci credete? Abbiamo le prove. Nel 1927 esce in sala di The Jazz Singer, primo “talkie” (film sonoro) della storia, in cui il protagonista Al Jonson, caucasico, recita con faccia colorata di nero e mani coperte da guanti bianchi. Un travestimento alla buona che, però, proprio perchè parte della narrazione di un film così iconico, è diventato, suo malgrado, simbolico. Tanto da venire parodiato attraverso il personaggio interpretato da Robert Downey Jr in Tropic Thunder. Un ruolo per cui Downey Jr è anche stato nominato agli Oscar, nonostante le polemiche.
Ma il problema degli Academy Awards con la diversità e l’inclusione è tristemente noto: #OscarsSoWhite. Passiamo ora al mondo dei Mad Men. Sono tante le pubblicità vintage in cui grazie a saponi miracolosi i bambini neri venivano “smacchiati”. Certo, quelli erano anni duri di segregazione e non integrazione per gli African-American. Pensate a Rosa Parks che nel 1955 ha fatto la storia perchè si è rifiutata di alzarsi dal suo posto sul bus, oppure alla storia di Richard e Mildred Loving, coppia interrazziale della Virginia costretta all’esilio nel 1958, solo per essersi sposata.
D’altro canto, quelli erano anche anni di innocenza assoluta da parte dei consumatori, che venivano indottrinati sugli effetti benefici e snellenti delle sigarette, ad esempio. E finiamo con il mondo delle celebrity e degli influencer che, prima dell’arrivo della mitica Oprah, dava alle donne a caccia di punti di riferimento e modelli mainstream a cui ispirarsi solo esemplari femminili biondi e super white, alla Martha Stewart o alla Julia Child.
I media e la cultura pop sono decisamente meno razzisti di un tempo (nonostante qualche defaillance)
Al di là di questo breve e parziale excursus storico, è evidente che le cose oggi sono certamente migliorate: i media e la cultura pop sono decisamente meno razzisti di un tempo (nonostante qualche defaillance) e i consumatori quando qualcosa non quadra, non fila, offende lo fanno notare a gran voce e a grandi tweet. Purtroppo però siamo ancora lontani da una risoluzione vera. Lo “sbiancamento mediatico” è ad esempio una pratica ancora abbastanza diffusa, anche se non si fa più con il sapone ma con Photoshop oppure, addirittura, con Instagram. Si sta poi facendo strada una nuova e inquietante faccia del razzismo, la cui radice forse sta proprio nella “blackface” di The Jazz Singer: l’appropriazione culturale indebita di simboli, oggetti, colori, stili, linguaggi, accenti, capi di abbigliamento che appartengono a una qualche minoranza, ma che vengono usati da soggetti che con la minoranza etnica in questione non hanno niente a che fare. E che però sono famosi, e dunque tramite condivisioni, pubblicità e video passano messaggi e immagini sbagliate, che offendono e che sono razziste. Pensate a Paris Hilton con in testa un copricapo nativo americano di piume, a Ashton Kutcher travestito da indiano in una famosa pubblicità di patatine, alle treccine “africane” di Kyle Jenner, o ancora a Chris Hemsworth e amici, vestiti da “pellerossa”.
L’ACCETTAZIONE DELLA DIVERSITA’
Fortunatamente, in risposta a questi usi inappropriati e ignoranti, stanno iniziando a diffondersi contenuti e messaggi più pertinenti e rispettosi delle diversità etniche, culturali e sociali. Anche con un po’ di ironia e al di là dei buonismi da pubblicità della Coca Cola. Serie tv come Jane the Virgin e Orange is the New Black il nuovo album di Beyoncè, la campagna di adv del marchio di underwear THINX, l’ultimo show teatrale di Ali Wong e l’acconciatura di Lupita Nyong’o’s al Met Gala 2016 sono splendidi e variegati esempi di come tutto, anche i capelli, possa servire per promuovere l’integrazione e l’accettazione della diversità nel rutilante mondo dei mass e social media. Dall’America dai mille volti, le mille etnie, il melt’n’pot, la gentrification, le minoranze e l’integrazione fino ad arrivare anche a noi. E magari fino alla Cina.