L’open access è una truffa? No, l’inchiesta di Science non lo dimostra, anzi ha dei problemi di metodo e di conflitto di interesse. Ecco perché.
Science, una delle riviste scientifiche più importanti del mondo, ha pubblicato un’inchiesta basata su una beffa ai danni di decine di riviste ad accesso aperto. John Bohannon ha scritto un paper di ricerca palesemente errato, farcito di inesattezze ed errori che un controllo serio avrebbe dovuto individuare immediatamente. Il paper descriveva i risultati di una ricerca (mai esistita, naturalmente) in cui si dimostravano gli effetti antitumorali di una molecola estratta da un lichene. Poi lo ha inviato sotto falso nome a più di 300 riviste open access: più di metà hanno accettato l’articolo, giudicandolo adatto alla pubblicazione.
L’autore dell’inchiesta incolpa il settore delle riviste open access, che definisce “un’industria globale basata sui pagamenti chiesti agli autori”.
Ma la sua inchiesta dimostra la malafede delle riviste open o piuttosto il mal funzionamento del sistema della peer review? La seconda ipotesi, secondo me e secondo tantissimi ricercatori che in questi giorni hanno criticato l’articolo. Anche se l’inchiesta ha il merito di aver scoperchiato le falle di un sistema in cui la qualità spesso passa in secondo piano, ci sono diversi problemi.
1) L’articolo è stato mandato solo a riviste open access. Come possiamo dedurne che la colpa è del modello di pubblicazione? Forse anche molte riviste tradizionali lo avrebbero preso per buono. O forse no: non possiamo saperlo. Science ha pubblicato un’inchiesta con un problema metodologico gigantesco.
Comparare i risultati ottenuti su un gruppo con quelli di un gruppo di controllo è alla base della ricerca scientifica.
2) Le riviste open più importanti hanno rifiutato il paper, per esempio PloS. Forse il problema non sta nell’essere open ma nella qualità della peer review, cioè del controllo dell’attendibilità degli articoli che ogni rivista dovrebbe effettuare prima di pubblicarli?
3) Science purtroppo ha un conflitto di interessi, dato che è uno degli esempi più importanti del modello tradizionale (solo chi paga i suoi abbonamenti carissimi può leggerla) e in questo articolo critica i suoi diretti concorrenti. Questo tipo di inchieste, che analizzano campi in cui sono in ballo grossi interessi economici e di prestigio, non dovrebbero essere svolte da organismi indipendenti?
4) Chi è senza peccato… Pochi anni fa la stessa Science ha pubblicato un articolo sulla scoperta di un fantomatico batterio che si nutriva di arsenico: una rivoluzione! Peccato che dopo pochi giorni decine di scienziati in rete abbiano dimostrato che l’articolo era pieno di errori, e che il batterio all’arsenico non esiste.
Di nuovo, forse il problema sta nella qualità della peer review e non nel modello di distribuzione o economico.
Proprio da quest’ultimo esempio si può partire per sottolineare che l’importanza dell’inchiesta non sta nella critica all’open access ma nell’aver messo in luce i problemi legati alla peer review. Nel caso del batterio all’arsenico, i revisori anonimi di Science non si accorsero delle falle del paper. Ma una volta pubblicato in rete, la collaborazione aperta e trasparente di decine di ricercatori impiegò poche ore a smontare l’articolo. Negli ultimi anni il numero di studi ritirati perché inesatti o fraudolenti è aumentato vertiginosamente: si fa scienza peggiore oppure grazie alla rete è più facile scoprire le mele bacate?
Oggi alcune riviste stanno cominciando ad adottare sistemi di peer review trasparenti, in cui i commenti degli esperti che valutano un articolo vengono messi in rete a disposizione di tutti, oppure altri ricercatori possono commentare e criticare la ricerca pubblicata direttamente sul sito della rivista. Questo potrebbe essere un ottimo antidoto alle frodi. Forse l’inchiesta di Science dovrebbe spingerci verso una maggiore apertura, e non il contrario.