Se una squadra di calcio perde per un rigore – e il rigore c’è, la colpa non è dell’arbitro ma di chi ha commesso il fallo. Molti dicono che tra le ragioni della sconfitta di Hillary Clinton alle presidenziali americane ci sia la vicenda emailgate. Cioè la diffusione delle email sue e dello staff elettorale democratico estorte dagli hacker e pubblicate da Wikileaks. Ma Wikileaks ha solo fischiato il fallo. Che è quello che fanno i whistleblower come Assange e Snowden: è nella loro natura, fischiare il fallo. To blow the whistle significa proprio “soffiare nel fischietto”.
WIKILEAKS E LA SCONFITTA DEMOCRATICA
Pur riconoscendo al sito anticorruzione creato da Assange il ruolo di media outlet, legittimato quindi a pubblicare informazioni rilevanti per l’opinione pubblica, qualcuno ha detto che la pubblicazione di quelle email compromettenti è il frutto dell’odio di Assange verso la Clinton.
Che Assange ce l’avesse con la Clinton potrebbe essere comprensibile: è infatti tristemente famosa la frase dell’ex segretario di Stato che a proposito dell’hacker australiano dice “mandiamogli un drone”.
Credits: l’Occidentale
WIKILEAKS HA PUBBLICATO EMAIL DI BANCHIERI, GOVERNANTI E DIPLOMATICI
Può essere quindi che Assange abbia voluto pubblicare quelle email proprio per danneggiarla. Ma Assange e il suo team a Wikileaks non hanno pubblicato solo “quelle” email, hanno anche creato una public library della diplomazia americana e un database cercabile della corrispondenza di molti personaggi afferenti ai governi siriano, turco e saudita, denunciandone avidità, autoritarismo e crimini contro l’umanità. In definitiva, che la pubblicazione di quelle email abbia potuto influenzare l’elettorato è probabile. Chiunque produca informazione, comprese le grandi testate giornalistiche che si sono pronunciate a favore di Hillary, cerca di farlo.
La comunicazione è l’arte di modificare lo stato mentale del ricevente e l’industria dell’informazione – come dice Noam Chomsky – non serve solo a far conoscere i fatti, certi fatti, ma a costruirli, a offrirne un’interpretazione, a indirizzare le scelte del pubblico e orientarne il consenso.
Media americani a favore, Wikileaks contro: potremmo dire che è finita in un pari e patta. Ma diciamolo più chiaramente: non è stata Wikileaks a far perdere le elezioni a Hillary Clinton, bensì i comportamenti discutibili della stessa candidata che da segretario di Stato e membro prominente del partito democratico americano ha fatto delle scelte discutibili che grazie a Wikileaks tutti possono oggi conoscere. In quelle email si parla di tutto: dell’egemonia americana nel mondo fino alle opinioni non sempre lusinghiere circa gli alleati, dalle politiche delle compagni petrolifere agli scandali bancari.
Le tappe dell’emailgate
A due giorni dalle elezioni in una missiva inviata al Congresso, James Comey, il capo dell’Fbi, nominato nel 2013 da Obama, nonostante la sua militanza repubblicana, ha reso noto che “Durante l’intero processo di verifica di tutte le comunicazioni che sono state inviate o ricevute da Hillary Clinton mentre era segretario di Stato – non sono emersi elementi per modificare le nostre conclusioni già espresse a luglio”. All’epoca l’FBI aveva chiarito che non vi era nulla di penalmente rilevante nelle missive dell’avvocatessa moglie dell’ex presidente Bill Clinton. Ma stigmatizzava la superficialità delle loro gestione.
L’indagine era iniziata per la violazione delle regole che i dipendenti del Dipartimento di stato devono rispettare in quanto Hillary Clinton, aveva usato un server privato Clintonemail.com, interpretando in maniera “ampia” il regolamento interno dell’amministrazione di cui era a capo nei quattro anni in cui è stata Segretario di Stato (2009-2013). E lo aveva fatto su suggerimento di Colin Powell, il generale che all’Onu si era reso ridicolo sventolando una falsa bustina di antrace per giustificare l’aggressione all’Iraq di Saddam Hussein secondo gli Usa pronto a usare le armi di distruzione di massa mai trovate.
Tuttavia l’agenzia federale che dipende dal Dipartimento della Giustizia aveva annunciato la necessità una nuova valutazione delle email trovate nel computer della sua assistente personale Huma Abedin, proprio il 28 ottobre scorso in seguito all’indagine sul marito di lei, indagato per una vicenda di sexting con una quindicenne. La decisione, a 11 giorni dal voto presidenziale 2016 aveva causato un terremoto politico. Tutta la vicenda era stata rinominata Emailgate e avrebbe potuto chiudersi qui. Ma in realtà la storia era cominciata molto prima.
DNC LEAKS E GLI HACKER RUSSI
Tanto per cominciare l’Emailgate non ha niente a che fare coi DNCleaks. (Democratic National Committee Leaks). Lo ripetiamo: l’Emailgate riguarda la gestione superficiale delle proprie email quando Clinton era segretario del dipartimento di stato, mentre i DNCLeaks riguardano le email di figure prominenti del comitato nazionale democratico e proverebbero il tradimento del partito nei confronti di Bernie Sanders suo concorrente alle primarie per la candidatura democratica nella corsa a presidente degli Stati Uniti.
Una prima tranche delle email della Clinton, l’Emailgate, è stata resa disponibile da Wikileaks già il 16 marzo 2016 in un database cercabile con i pdf originali ottenuti attraverso una richiesta pubblica sulla base delle leggi americane sulla trasparenza, il famoso FOIA (Freedom of information act). Si tratta di 30,322 email e attachment inviati e ricevuti da Hillary Clinton quando era “Secretary of State” e coprono un periodo che va dal 30 giugno 2010 al 12 agosto 2014. Tra queste email ci sono osservazioni della Clinton e dei suoi interlocutori che chiamano in causa Mario Monti, ritenuto serio e affidabile ma da mettere alla prova; le critiche ad Assange e gli epiteti coloriti verso Berlusconi, considerato un libertino (“rake”) e inquisito per mafia, fino alle politiche italiane in Libia e ai rapporti con l’italiana Eni.
LO SGAMBETTO A SANDERS
Le email del comitato elettorale democratico, invece sarebbero il frutto di un’azione di esfiltrazione dei dati dei computer in cui erano custodite da parte di presunti hacker russi. A rivendicare il furto di queste email è stato un hacker, forse russo, che si fa chiamare Guccifer 2.0. Anche queste sono state rivelate da Wikileaks il 22 luglio 2016. Si tratta di 19,252 emails e 8,034 allegati inviati da figure prominenti del Comitato Nazionale democratico. I leaks provengono dagli accounts di sette personaggi del DNC: dal responsabile della comunicazione Luis Miranda (10770 email), fino ai responsabili della tesoreria Jordon Kaplan (3797 emails), Scott Comer (3095 emails), Daniel Parrish (1472 emails), Allen Zachary (1611 emails), e altri. Nelle email dei DNCLeaks Bernie Sanders viene deriso, e si dimostra come tutto lo staff abbia fatto del suo meglio per contrastarne l’ascesa e fargli perdere le primarie, fino a far arrivare le sue fotografie in piscina e con delle giovani fan ai giornali per metterlo in cattiva luce. Queste email sono state ottenute grazie a un attacco di spear-phishing (quando si clicca su un file o un sito presente in una email inviata da un presunto conoscente), subito da una consulente dello staff democratico.
JOHN PODESTA SI SCORDA IL TELEFONINO SU UN TAXI
La terza vicenda relativa alle email riguarda la corrispondenza di John Podesta, campaign Chairman di Hillary. Podesta, proprietario del Podesta Group, un’azienda di lobbisti, è un vecchio collaboratore dei Clinton ed è stato Chief of Staff del Presidente Bill Clinton dal 1998 al 2001. Nelle email di John Podesta è possibile ricostruire la rete di rapporti dei democratici, le loro strategie e in parte le intenzioni e le tattiche del candidato Clinton e del suo staff. Anche Podesta, è stato oggetto di un attacco di spear phishing che ha messo nelle mani di vari soggetti, tra cui Wikileaks, una mostruosa quantità di materiale. Ma non è secondario il fatto che Podesta avesse dimenticato il suo smartphone in un taxi. Ogni ipotesi a questo punto è pensabile.
E tuttavia, a dispetto dei contenuti delle email, che avrebbero dovuto generare il vero scandalo, Hillary Clinton è finita sulla graticola mediatica per aver usato un indirizzo email privato e un server privato per la posta elettronica mentre era al lavoro come segretario di stato. Perché non viene condannata per quello che dice nelle email e che invece proverebbe un certo livello di compromissione coi potentati che la sostengono?
LA SCONFITTA DEMOCRATICA
I democratici hanno perso per molti motivi: perché hanno fatto fuori in una congiura di palazzo un candidato che poteva veramente vincere, Bernie Sanders, chiamandolo “socialista” e mettendogli contro la stampa e allontanandolo dai sindacati e dalla constituency democratica; perché vivevano in una bolla mediatica, in parte da loro costruita e finanziata, che nascondeva i veri sentimenti de paese; perché hanno creduto che il politicamente corretto e l’appoggio della borghesia metropolitana contasse di più della rabbia di BlackLivesMatter e dello scontento diffuso nelle aree rurali, dei veterani mandati al macello e dei movimenti sorvegliati dalla NSA.Hanno perso perché come ha scritto Luigi Zingales, Hillary credeva che la presidenza le fosse dovuta dopo la lunga carriera politica accanto prima al marito e poi ad Obama. E perché hanno sottovalutato il risentimento di chi non ha voce nella rat-race americana. Perché gli elettori tutti insieme guadagnano meno delle 100 star di Hollywood che si sono dichiarate a favore di Hillary.
Hanno perso perché Trump è stato bravo e incarna, con tutte le sue contraddizioni, il vero sogno americano di imprenditore che lotta, combatte, cade e si rialza. Un uomo che fallisce, contratta con le banche e specula sul debito della sua città, New York. Proprio lui, uno che non paga le tasse, sfrutta i lavoratori stagionali, e dice delle donne quello che gli uomini pensano ma non dicono, uno che parla alla pancia del paese incurante della coerenza, della volgarità, dell’idiozia di alcune affermazioni come quando dice: “chiudiamo Internet!” per fermare il terrorismo. No, Hillary Clinton non ha perso per colpa di Wikileaks. Se una squadra di calcio perde per un rigore – e il rigore c’è, la colpa non è dell’arbitro ma di chi ha commesso il fallo.
ARTURO DI CORINTO