1. Le cronache di internet già parlano di una catastrofica guerra, che vede contrapposte le forze del male – orde di chi non può fare a meno dei brevetti per recintare la conoscenza nel proprio esclusivo interesse – e le forze del bene, stavolta impersonate dalle comunità dei makers, che grazie alla tecnologia del 3D printing promettono di riportare la manifattura al centro dello scenario economico mondiale, all’insegna di una nuova crescita economica basata sulla condivisione della conoscenza e la promozione della libera creatività. Come spesso succede, le guerre stellari di religione sono condotte da fazioni che si alimentano di posizioni estreme e narrazioni a tinte forti, nelle quali, però, si perde il dettaglio. E il diavolo, si sa, è nascosto nei dettagli.
Se, poi, il veicolo di queste narrazioni sono i blog, l’effetto è virale.
2. E’ di pochi giorni fa la notizia che MakerBot – società che produce stampanti 3D dal 2009, e inizialmente votata alla cultura dell’open source e dell’open hardware – avrebbe brevettato un sistema automatico di precisione per i sistemi di deposizione del materiale nei processi di stampa 3D. Di là dal mutamento nemmeno troppo repentino di filosofia (dall’open source al brevetto), fa scalpore il fatto che il sistema in questione non sarebbe farina del sacco di MakerBot, ma sarebbe stato sottratto prepotentemente dal pubblico dominio al quale in precedenza la comunità degli sviluppatori l’aveva destinato. E’ il prodromo della guerra. Gli apostati che hanno abbracciato la fede del brevetto si preparano ad aprire le ostilità verso gli altri produttori e verso le pacifiche comunità dei makers, spargendo terrore a suon di carte bollate e deprimendo una rinnovata creatività nei processi di innovazione basati su una cultura “open” (ma non, si badi, di “open innovation” à la Chesbrough, che invece dei brevetti fa un indispensabile collante), ciò fondata sulla condivisione e su una incrollabile fede nel pubblico dominio.
3. Il fascino del racconto epico – un po’ ritagliato sui racconti del sussidiario di scuola media ispirato alla storiografia événementielle – lascia però che l’enfasi nasconda alcuni dettagli importanti e, soprattutto, impedisca letture alternative della storia, magari più oggettive, anche se meno avvincenti.
4. Che sia detto in principio e resti sempre chiaro: il sistema brevettuale non è infallibile, ma nemmeno a disposizione dell’arbitrio degli inventori, delle multinazionali, dei furbi o di tutti e tre assieme. Una regola universalmente accolta in tutte le legislazioni è che se un trovato (prodotto, processo, applicazione, metodo ecc.) viene consegnato al pubblico dominio mediante divulgazione, la successiva attività brevettuale è preclusa. Certo, qualcuno può comunque tentare la via del brevetto e, in caso di errore dell’esaminatore, è possibile che la domanda sia accolta e il brevetto sia concesso.
Ma si tratta di un brevetto invalido per carenza del requisito di novità. D’altra parte, la concessione del brevetto non significa automatica esclusione di tutti dall’invenzione. Gli studiosi più attenti oggi tendono a proporre una lettura del brevetto in termini probabilistici, cioè come una possibilità data al titolare (sempre che ci riesca) di escludere altri dall’uso dell’invenzione, se ed in quanto questo rientri in una strategia commerciale o in un modello di business.
L’iniziativa, però, è e resta del titolare. Nulla esclude che un trovato venga brevettato e il brevetto reso accessibile a tutti. La storia è ricca di tecnologie importanti che hanno seguito quest’ultima strada; valga su tutti l’esempio del brevetto Cohen-Boyer, nel settore del biotech, che apparteneva a Stanford e UC San Francisco e che veniva licenziato per una royalty modesta a chiunque ne avesse fatto richiesta. Se quel brevetto fosse stato usato in modo aggressivo, probabilmente l’industria biotecnologica non sarebbe fiorente com’è oggi. Ma se quella tecnologia non fosse stata brevettata, oggi probabilmente non parleremmo nemmeno di industria biotecnologica.
5. Ora, mettendo assieme le considerazioni che precedono e riferendole alla questione delle stampanti 3D, occorre riconoscere che qualcosa, nella narrazione, non torna. Se, infatti, MakerBot sta tentando di brevettare oggetti che erano già in pubblico dominio, il relativo brevetto (se concesso) non avrà vita lunga, né facile, tanto più che c’è grandissimo interesse nel toglierlo di mezzo da parte di molti e, prima ancora, nell’opporsi alla concessione. Se, invece, le comunità dei makers e gli sviluppatori di soluzioni 3D vogliono rinforzare la politica dell’accesso e della condivisione, devono deporre le armi inutili dell’ideologia e accettare l’idea che essi stessi possono brevettare le loro innovazioni, non per escludere gli altri ma, proprio al contrario, per impedire che altri decida di non giocare secondo le loro regole comunitarie della condivisione e tenti di sottrarre loro possibilità di movimento. Il sistema brevettuale lo consente e, da questo punto di vista, può militare dalla parte della libertà senza pregiudiziali di campo.
6. Raccontata così, la storia è più tecnica e meno avvincente, bisogna riconoscerlo. Non ci saranno rumori di ferraglia e corpo a corpo, né troppi spargimenti di sangue e cadaveri degli sconfitti. Ma forse tutto quello non serve nemmeno. In fondo, i processi di innovazione hanno bisogno di una pace duratura, basata sul buon senso e non su tifoserie violente ed estremismi reciproci.
Roma, 16 giugno 2014Riccardo Pietrabissa e Massimiliano Granieri