#MCD14 Le sedie dai copertoni di Messina, telefono wireless a Pachino

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Arrivo a Messina alle undici di una splendida serata di inizio agosto. La moto sembra rinvigorita dalle 10 ore in mare. Fila dritta al buio, il suono è pulito, sembra riposata, forse perché lo sono io. La città è in festa, il lungomare è un brulicare di famiglie, panini di carne (braciole, li chiamano così qui, involtini di carne e formaggio impanati) e birra. Tra le mani vedo solo birra Messina, una birra un tempo locale, ora della Heineken che ha trasferito la produzione a Massafra, Taranto. 300 famiglie a casa, mi dicono. La birra arriva qui in nave, dalla città dei due mari allo stretto: 800 km sullo Jonio. Certe logiche fatico sempre a capirle del tutto.

Un maker messinese

A Messina mi ospita Federico Russo, 32 anni.

Architetto, designer, maker. Ha un bell’appartamento sul lungomare, Mac nelle stanze ad uso degli ospiti, e buona colazione. Non sapevo che Federico fosse un artigiano con la passione del do it yourself. L’ho scoperto quando mi ha mostrato questa sedia: una poltrona comodissima per lettori, fatta da un copertone di camion.

Mi parla dei suoi progetti, della produzione digitale di manufatti, di Banzi e Arduino, di arte e design. Non gli dico subito che sapevo benissimo quello di cui mi parlava. Ho aspettato che manifestasse la sua meraviglia. E ne aveva tanta. Mi ha raccontato di una “nuova generazione di ragazzi che stanno trasformando la Sicilia”. Di “professionisti che si sono formati fuori, a Milano o all’estero e che ora tornano a casa per migliorare le cose nella propria città”.

A Messina, ad Agrigento, a Siracusa. Trentenni con idee nuove che vogliono provarci, aiutati dalla crisi. Alla fine la crisi è, nell’etimo greco, un momento di giudizio, di cambiamento. La nostra crisi ha liberato le energie di voler fare. Provare non costa nulla. Non c’è rischio di fallimento. Qui potete vedere i suoi lavori..

L’Occidentale

A Messina sto poco. Il mattino seguente sono già in viaggio verso sud. Ricordate? Devo arrivare, per citare il blog di un amico, a sud di Tunisi. Esco dalla A18 al primo casello, Roccalumera (qui, in una casetta al pian terreno di fronte al mare ho vissuto i primi 3 anni di vita) e prendo la provinciale. Si chiama occidentale sicula. Il nome mi piace. Ma non mi sarei aspettato tanta meraviglia.

Posti come Forza d’Agro, Letojanni, Taormina. Che spettacolo! L’azzurro a sinistra, il giallo della pietra e della roccia a destra. Un contrasto mozzafiato che si allunga per 40 chilometri e disegna un paesaggio da film. Spero che quella strada non finisca mai. La moto ci scorre in mezzo, sembra a suo agio, 3mila giri, in terza. Va e non chiede altro. La terra diventa sempre più rossa. Costruzioni mezze diroccate a strapiombo sul mare. Sembrano torri d’avvistamento. Si allungano ocra su spuntoni di roccia che hanno voglia di guardare il cielo più che il mare. Chissà quale Giovanni Drogo avrà cercato i suoi tartari. Pezzi di mondo prima dell’infosfera (quali sarebbero oggi i nuovi tartari?).

La polverosa Pachino.

Supero Catania, per ora anche Siracusa. Riprendo l’autostrada, unico modo per rispettare i tempi. Attraverso un incendio, poi un altro. La terra sembra incendiarsi da sola, fiammate per autocombustione. Anche la mia pelle sul braccio destro brucia, quello che dà verso il guardrail, giusto un po’. Vado giù dritto, attraverso Avola, Noto. Posti bellissimi che vedrò, ma non ora. Arrivo in fondo alla Sicilia. È tarda mattinata. Lo zenit. Il termometro della moto dice 39 gradi. Ma sono in strada, a 120, e so che saranno di più. Il paesaggio cambia veloce, più si scende a sud più cambia. La terra diventa gialla, la vegetazione si fa più rada, bassa. I fuochi intorno diventano più frequenti. La terra brucia. Sembra di stare attraversando i confini tra due continenti. Qui potrebbe essere già Africa, una manciata di km più a sud della Tunusia, un pensiero al quale è difficile abituarsi. La terra è una piastra, la moto soffre, il fisico anche. Caldo secco che brucia la gola. Non credo di aver mai provato così forte la voglia di bere. Non un’area di servizio, tocca tirare dritto. Arrivo a Pachino. La polverosa Pachino. Un posto che sembra già Africa. La sabbia sulle macchine, come al Cairo, o a Dubai. Il mare intorno che sembra più una minaccia di sale che un alleato. Il 3G va a singhiozzo.

Scendo ancora verso Porto Palo di Capopassero. E poi l’Isola delle Correnti. Ho davvero bisogno di liquidi e cerco qualcuno che venda qualcosa. Finisco in un chioschetto di frutta che mi serve pomodori datterini, anguria e birra gelida. Sto nel patio, guardo la strada polverosa, mi giro una sigaretta. Il cellulare non prende. Mi godo il momento. Poi chiedo dell’acqua, e l’acqua non c’è. La signora, un po’ mortificata, avvisa il marito. Un uomo enorme, torso nudo, baffi folti e neri che diventavano quasi un pizzo folto. Aveva una delle pance più rigogliose che abbia mai visto, con una pistola tatuata all’altezza della milza. La moglie gli chiede di chiamare un certo Gaspare, per chiedergli dell’acqua e della birra. Mi aspettavo una telefonata , ma lui comincia ad urlare al vento: ” Gaspare, com’è, senza acqua e birra mi lasciasti?”. Una voce titanica. Gaspare risponde qualcosa, dall’altra parte del vento, e lui gli dice di sbrigarsi. Guardo il cellulare, in effetti non c’è campo. Capisco. Ora so di essere arrivato a sud di Tunisi. 44 chilometri più a sud di Tunisi.

Porto Palo di Capopassero, 6 agosto 2014Arcangelo Rociola

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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