Meno stato e più mercato: le StartUp possono rinnovare il capitalismo

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Qualche giorno fa Paul Graham, noto ai più come cofondatore dell’incubatore YCombinator e caro a me come l’inventore dell’iconica frase “hard to do a really good job on anything you don’t think about in the shower”, ha pubblicato un “saggio” sulla diseguaglianza economica ed è stato vittima di una ondata di critiche.

Credits: pixr8.com

Nel pezzo, Graham si autodefinsce un “income inequality manufacturer”: secondo il noto VC americano l’ecosistema startup, di cui egli è rappresentante chiave, è di fatto un generatore di disuguaglianza basata, tuttavia, sul merito e sulla capacità di lavorare duro.

Sebbene Graham faccia notare nel pezzo come oggi non siano i fondatori di startup e i venture capitalist i più rappresentati nelle liste di HNWI, mi permetto di avere le mie perplessità a fornire questa chiave di lettura.

Se è vero infatti che abbiamo avuto il movimento #OccupyWallStreet e non #OccupySandyHillRoad e se è vero che i “rents” (le rendite) più grandi vengono oggi dalle operazioni “puramente” finanziarie, va detto che è sempre più difficile distinguere creazione di valore e di ricchezza dalla rendita e che i fenomeni non sono puri al 100% come Graham vorrebbe far sembrare.

Credits: Credits Wikimedia Commons

Come ha dimostrato l’eccellente lavoro di Mariana Mazzucato “Lo Stato Innovatore” coloro che generano immense fortune dalla creazione di startups (e che nell’era del plateau della crescita e del quantitative easing sostituiranno gradualmente i finanzieri nelle liste HNWI) sono spesso solo ricombinatori di tecnologie abilitanti esistenti: questi imprenditori spesso sviluppano solo livelli aggiuntivi sulla base di una innovazione abilitante generata da investimenti della pubblica amministrazione in programmi di ricerca a lungo termine.

Siamo di fronte a un problema insito, per definizione, nel funzionamento del mercato che Porter, con la sua teoria della Value Chain, aveva ben identificato: chi innova più vicino all’utente finale, in cima alla catena, è colui che è destinato a monetizzare maggiormente. Questi attori creano narrative e generano la maggior parte del valore nel fornire incredibili esperienze utente.Apple è maestra e caso di studio perfetto: ricombinando tecnologie in un device come l’iPhone è stata in grado di trasformare radicalmente praticamente tutti i processi produttivi moderni e la nostra esperienza sociale di interazione (avendo un impatto incommensurabile su quello che è oggi il mondo) e ha potuto, nel processo, produrre profitti imbarazzanti.

Questa enorme generazione di profitto è avvenuta sostanzialmente a scapito di tutte le aziende che, in una maniera o nell’altra, sono state coinvolte nella produzione del suddetto oggetto e delle pubbliche amministrazioni (in particolare quella Statunitense) che lo hanno di fatto reso possibile con la ricerca e sviluppo di base dei più importanti moduli tecnologici coinvolti.

Ma di chi è l’innovazione in fondo?

Si tratta dunque di un problema di redistribuzione del valore generato da tali innovazioni, problema che c’è sempre stato quando uno shift di paradigma tecno-economico è arrivato ad abilitare nuova creazione di valore: è stato così, per esempio, con l’invenzione del welfare moderno legato all’era dello sviluppo industriale bellico e post-bellico del novecento.

Coloro che oggi si inquietano dunque davanti al grande potere di influenza che l’ecosistema startup degli Stati Uniti e non solo – fatto di centri di potere cognitivo come le università, di controllo dei media di settore e di disponibilità di enormi capitali finanziari – ha nell’influenzare la nostra realtà, tendono a dimenticare che le forze produttive e i rappresentanti delle rendite hanno sempre avuto e hanno tuttora un enorme potere di influenza.

Questi attori hanno esercitato da sempre la loro longa manus sulla politica: lungi dal rappresentare il bene pubblico in sé, ammesso che questo esista, la politica ha sempre risposto all’influenza dei lobbisti quando si è trattato, per esempio, di definire come tassare i redditi e i guadagni di capitale di lungo periodo. La teoria per cui proprio questa differenza sia tra i principali, se non il principale, driver della crescente disuguaglianza economica è stata al centro del discusso “Capital in the 21st century” di Thomas Piketty e una descrizione di come questa differenza influenza il mondo startup statunitense stesso è disponibile nel bellissimo post di commento che Mark Suster ha fatto proprio del suddetto recente saggio di Graham.

Ma qual è il punto? In un’altra eccellente lettura del tema diseguaglianza e progresso tecnologico, ben tre anni fa, David Graeber – noto antropologo americano che ha poi esplorato il tema delle burocrazie corporative e pubbliche in lungo e in largo nel recente “L’utopia delle Regole” – ci aiuta a fare chiarezza su un aspetto chiave della discussione: l’innovazione tecnologica è di per sé rivoluzionaria ma è stata, in sostanza, la politica a preservare le strutture di potere esistenti.

È stata la politica – e il suo fallimento nel rappresentare realmente l’interesse pubblico e l’aver scelto di rappresentare e preservare l’interesse privato del capitalismo estrattivo – a permettere schemi di tassazione iniqui verso il reddito e favorevoli alle rendite finanziarie.

È stata la politica a permettere al capitalismo internazionale di decidere coscientemente di rinunciare allo sviluppo tecnologico e all’automazione produttiva in favore della globalizzazione e dell’esportazione della produzione in nazioni con mano d’opera meno tutelata e più sfruttabile: d’altronde già Marx aveva spiegato che estrarre valore dalle macchine non sarebbe stato possibile.

Più uguaglianza si, ma come?

Dall’altra parte dello spettro del mondo dell’innovazione rispetto alla narrativa startup, da anni si fanno strada i modelli alternativi che negli ultimi mesi hanno trovato ribalta anche grazie ai bestseller di Jeremy Rifkin (e il suo racconto dei “collaborative commons”) e di Paul Mason, che in modi diversi hanno entrambi evocato la fine del capitalismo o – meglio – la sua evoluzione in un post-capitalismo.

Paul Mason

Ad offrire un’alternativa abbiamo oggi, da una parte, i movimenti per le comunità resilienti, promotrici del nuovo localismo produttivo delle cooperative di comunità e delle monete ultra-locali, dall’altra lo stesso avanzamento tecnologico generato (anche) dalle startup che ha reso quella abilitata dalla rete una economia abbondante. Questa economia offre oggi nuove possibilità per il finanziamento – ad esempio con le forme di crowdfunding – e sta sperimentando nuovi modelli di possesso dell’impresa, basati su presupposti di maggiore equità tra finanziatore, imprenditore, impiegato e persino col peer (l’utente) come quelli che propone il nascente movimento #platformcoop (rimando gli interessati al bel pezzo del fondatore di The Food Assembly, Marc-David Choukroun, tradotto e introdotto da Fred Wilson).

Tra gli ospiti della conferenza Platform Cooperativism andata in scena a Novembre a New York c’era anche Douglas Rushkoff: ne ha chiuso i lavori con uno speech lungo e tagliente, che riporto qui per chi fosse interessato:

Sebbene il tono della critica al capitalismo cognitivo che Douglas Rushkoff usa nel suo speech e nel suo libro in uscita (ironicamente, oggi in pre-ordine su Amazon) “Throwing Rocks at Google Bus” non mi trovi interamente d’accordo, egli ha ragione a parer mio quando afferma che noi oggi possiamo costruire effettivamente “la nostra propria economia e la nostra moneta”. Tuttavia nel, recentemente pubblicato, volume “Inventing the Future” Nick Srnicek and Alex Williams forniscono una critica al localismo delle soluzioni della sinistra (anche quella “digitale” spesso incarnatasi col movimento per i beni comuni e le tesi, tra gli altri, di Rushkoff) e alle soluzioni composte di “piccoli interventi che prevedono azioni locali e non scalabili”.

Secondo i due “è altamente improbabile che [queste iniziative] siano in grado di organizzazione un sistema socio-economico alternativo” e, come spiega egregiamente Ian Lawrie su LA Review of Books, “l’antidoto al localismo lento è una rivoluzione veloce” sostenuta da una sinistra che sia in grado di fornine una visione di un progresso tecnologico – nell’interesse pubblico – in grado di “imparare dalle strategie inaugurate dall’egemonia neoliberista ascendente”.

Tuttavia, tra la visione del comunismo digitale centralizzato di Srnicek e Williams e l’accettazione acritica dell’asse corporativo-politico neolib credo che si debba fare strada una terza via che superi il dualismo tra iniziativa privata e bene pubblico: una prospettiva dove, come dice Paul Miller “la tecnologia ci aiuti a creare nuove istituzioni e non soltanto erodere quelle esistenti”.

Per chiarire meglio cosa intendo: chi di voi non ha mai avuto a che fare con istituzioni pubbliche – quali ad esempio l’INPS che detiene il monopolio di fatto sulla nostra previdenza sociale – senza essere passato attraverso certificati protocollati e dimenticati, comunicazione complicate, telefonate a persone che non possono fare nulla o dipendenti scomparsi, in malattia o in ferie?

Credits CC-BY-NC Plashing Vole https://www.flickr.com/photos/plashingvole/8402426850/in/photostream/

Finché la sfera dell’iniziativa privata non si riapproprierà di temi come il welfare, finché non potremmo noi provare a ricostruire un’INPS alternativa che – magari appoggiandosi a blockchain, smart contracts e sistemi di fiducia peer-to-peer – possa “reinventare” l’assistenza mutualistica fra pari, saremo sempre vittime di quello che Christian Iaione chiama lo “Stato Leviatano” e non giungeremo mai a quel “governo collaborativo e policentrico” a cui auspichiamo.

È forse dunque il momento di rispolverare il motto “meno stato più mercato” e rivalutare le idee della scuola austriaca e dell’economia autoregolata tra pari, decentralizzata, privata e basata sulle relazioni fiduciarie. Forse Margaret Thatcher dopotutto era solo in anticipo di qualche decennio e non poteva fare affidamento sulle potenzialità della rete di generare nuovi sistemi di impresa privata più trasparenti, responsabili e meno estrattivi in grado di occuparsi di cose importanti come le nostre necessità primarie. Una big society “on steroids”.

Forse è ora di smettere di appellarsi a una teoria dell’uguaglianza che è troppo spesso stata quella dei maiali, “più uguali degli altri”; se è vero, come dice Graeber, che:

“Dovendo scegliere fare apparire il capitalismo l’unico sistema economico possibile e trasformare il capitalismo in un sistema economico vitale e a lungo termine, il neoliberismo [e le sue complicità con la politica, ndr.] ha scelto sempre la prima opzione.”

A noi resta oggi la possibilità di sviluppare nuovi sistemi di impresa privata in grado di aggredire i problemi importanti e diminuire la nostra dipendenza dalle mega burocrazie pubbliche che di interesse pubblico fanno poco e niente e si occupano più di tutelare grandi interessi economici e rendite di posizione che di immaginare il futuro.

NOTA: “Su suggerimento di Christian Iaione vogliamo chiarire che la definizione di Stato Leviatano è di Adam Smith”

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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