Tanti annunci, tanta buona volontà, ma i fatti sono ancora pochi. Sulla mobilità sostenibile la politica continua a limitarsi a un elenco di buone intenzioni. Certo, il decreto Rilancio, approvato dal governo e approdato in Parlamento, prevede incentivi per l’acquisto di bici e monopattini. Lo scopo è lampante: favorire la loro vendita, perché sono veicoli preziosi per decongestionare il traffico delle città. E il loro uso diventa una necessità, visto che dopo l’epidemia di Coronavirus c’è molta cautela sugli spostamenti con i mezzi pubblici tradizionali. Ma i ritardi politici si accumulano da anni, con il tema scivolato in secondo piano. Eppure, già in una ricerca del 2016, il Censis aveva ammonito: “Interventi settoriali tra loro slegati scontano grandi limiti.
Occorrono invece politiche organiche, basate sulla complementarietà tra i diversi soggetti e sul coordinamento fra trasformazioni insediative, uso dello spazio urbano e organizzazione della mobilità. Sono tutti fenomeni che sottostanno a processi di mutamento intensivi, e quindi richiedono flessibilità e adattabilità anche al sistema di regolamentazione che li governa”.
Mobilità sostenibile e politica
Peraltro, nel decreto Rilancio, sull’acquisto di bici e monopattini è presente una limitazione non proprio secondaria: “Possono usufruire del buono mobilità per l’anno 2020 i maggiorenni che hanno la residenza (e non il domicilio) nei capoluoghi di Regione (anche sotto i 50.000 abitanti), nei capoluoghi di Provincia (anche sotto i 50.000 abitanti), nei Comuni con popolazione superiore a 50.000 abitanti e nei comuni delle Città metropolitane (anche al di sotto dei 50.000 abitanti)”, si legge sul sito del Ministero dell’Ambiente.
Sono esclusi, quindi, i residenti dei Comuni più piccoli, tanto che si è sollevata qualche protesta per quella che è stata etichettata come una discriminazione per chi vive nelle località meno popolose. Per esempio un Comune di 40mila abitanti. “Il bonus bici in Friuli Venezia Giulia arriverà a chi abita nei quattro capoluoghi delle ex Province”, ha osservato Mauro Bordin, capogruppo regionale della Lega in Friuli Venezia Giulia, riferendosi al suo territorio. Ma si tratta di un ragionamento estendibile anche ad altre zone del Paese. Secondo quanto ha evidenziato da Bordin, saranno tagliati fuori “non solo coloro che vivono nelle zone di campagna, nelle valli o in montagna, ma anche chi risiede nelle piccole e medie città”.
Cosa è necessario per implementarla?
C’è un’ulteriore questione da risolvere: per rendere le città a misura di bici o di monopattino è fondamentale il rafforzamento delle infrastrutture, principalmente le creazione di nuove piste ciclabili. “Bisognerà puntare al raddoppio dei chilometri attualmente disponibili in Italia, realizzando quanto previsto dai Pums, i Piani urbani per la mobilità sostenibile che sono già stati approvati”, ha dichiarato il presidente di Legambiente, Edoardo Zanchini. Il costo? Non sarebbe certo impossibile da affrontare, perché la spesa si aggira intorno ai 600 milioni di euro a fronte di un incremento di 2.626,5 chilometri di piste ciclabili.
Basti pensare che ora in totale sono 2.341 chilometri. Dunque, c’è la possibilità di compiere un’operazione imponente (con la realizzazione di più del doppio delle ciclabili) con uno stanziamento relativamente basso. “Fondamentale – ribadisce Legambiente – sarà il ruolo dei Comuni, chiamati a presentare progetti seri, che mirino a uno sviluppo strategico della rete ciclabile, ma anche a trovare i giusti accordi con le imprese di sharing mobility per garantire una mobilità sostenibile a buon mercato e inclusiva, che si traduca in più mezzi, disponibili in più quartieri e con costi alla portata delle tasche di milioni di cittadini”.
Un altro esempio di politica distratta arriva dal Programma di incentivazione della mobilità urbana sostenibile nelle città (Primus), ancora fermo a un anno dalla sua approvazione, stando a quanto rivela l’interrogazione parlamentare presentata dalla deputata di Leu, Rossella Muroni, rivolta al ministro dell’Ambiente, Sergio Costa. Primus prevede un finanziamento (a fondo perduto) pari al 75% per favorire scelte di mobilità urbana alternative all’impiego di automobili private. In questo modo dovrebbe essere favorita la diffusione di forme di mobilità a basso impatto ambientale e di condivisione dei veicoli.
La dotazione di quindici milioni di euro avrebbe dovuto incentivare la realizzazione di nuove piste ciclabili in grado di rispondere alla domanda di spostamenti urbani e sviluppo delle attività di mobility management, presso le sedi delle amministrazioni dello Stato (sedi centrali e periferiche), delle amministrazioni territoriali, delle scuole e delle università. Una parte del fondo, esattamente tre milioni e mezzo, è stanziata esclusivamente per i progetti sulla sharing mobility, macrocategoria che include car sharing, scooter sharing e bike sharing. Il problema è che a un anno dall’inizio del programma non sono stati resi noti i progetti destinatari degli stanziamenti.
E dire che proprio sul capitolo della sharing mobility c’è una notevole ricettività da parte degli italiani. Il terzo rapporto sul settore, relativo al 2018 e pubblicato dall’Osservatorio nazionale, indica una strada ben precisa: oltre cinque milioni di persone hanno fatto ricorso a questo servizio (includendo la condivisione di auto, scooter e biciclette). “Nel 2018 si conferma come un settore in crescita nelle sue grandezze fondamentali, in trasformazione per alcuni suoi segmenti e in evoluzione per i servizi ancora poco affermati oggi ma che ne arricchiranno l’offerta nel prossimo futuro”, mette in evidenza l’Osservatorio. I numeri sono in tal senso significativi: “Secondo i dati raccolti, a livello nazionale cresce di 14 unità il numero di servizi di mobilità condivisa innovativi, arrivando a un totale di 363 nel 2018, oltre 100 servizi in più di quelli presenti nel 2015 e un tasso di crescita medio del 12% all’anno. Una crescita dovuta in particolare all’aumento di servizi di carsharing e scootersharing, oltre che al numero maggiore di città in cui è possibile accedere ai servizi digitali di pianificazione dei propri spostamenti”, prosegue la ricerca.
Tuttavia, la disomogeneità geografica è una spia di allarme: l’offerta è disponibile in gran parte al nord, che copre il 60% della sharing mobility italiana. “Sale invece molto più velocemente il numero di utenti della sharing mobility che al 31 dicembre 2018 sono arrivati secondo le stime dell’Osservatorio a 5,2 milioni. Un delta positivo rispetto all’anno precedente pari al 24%, cioè un milione di italiani in più che nel 2018 hanno scelto un servizio di mobilità condivisa di tipo innovativo per soddisfare le proprie esigenze di spostamento”, si legge ancora nello studo.
Un aspetto incoraggiante, per quanto riguarda la sostenibilità, è l’incremento di veicoli elettrici sul totale dei veicoli a disposizione degli utenti: il balzo è dal 27% del 2017 al 43% del 2018. “Una differenza positiva di sedici punti percentuali conseguenza soprattutto del boom dei servizi di scootersharing elettrici in grado di sestuplicare la loro flotta in un anno e aumentando la quota relativa delle due ruote rispetto alle auto passando dal 6% del 2017 al 22% dell’anno successivo”, spiega l’Osservatorio.
Dati positivi, insomma. Ma, come annotato dal Censis, affinché gli “obiettivi non siano destinati a rimanere nel cassetto dei buoni propositi ma abbiano reali chance di essere raggiunti, è impensabile rinunciare all’azione congiunta di policy-maker, costruttori e cittadini, i cui sforzi devono rispondere alla richiesta di un intervento pienamente sincronizzato. Una cabina di regia che vede nell’impellente necessità di sviluppare politiche organiche il sostrato ideale per la sua istituzione”. Serve la politica, quindi. Capace di stimolare la domanda e una mobilità 2.0.