Narratively, raccontare storie con lentezza con lo storytelling slow

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Il mondo delle notizie è veloce. Velocissimo, anzi. Fatto di grandi titoli, piccole news, grosso clamore. Tutto si consuma in fretta, per strada, in ufficio, a letto, al ristorante. Su qualsiasi output mediatico: da Twitter al sito del Corriere della Sera a quello del Wall Street Journal. L’importante non è solo sapere. Ma sapere per primi. Essere e stare sul pezzo. Aggiornarsi sempre, ovunque, su qualsiasi cosa. Questa è la struttura di base con cui riceviamo e consumiamo informazioni oggi.

La nostra attenzione deve venire catturata in un attimo, e tenuta sulla pagina (soprattutto digitale) quel tanto che basta per carpire l’essenza di quanto è successo. Dal primo caso di Ebola in USA all’acquisto notturno di una qualche start up di nicchia da parte di Facebook.

Non conta capire davvero, e non conta più di tanto la storia. Conta l’informazione e conta lo “spin”. L’impatto è quello di un blockbuster al cinema: occupare tutti i canali possibili. Raggiungere la massa dei fruitori. Restare fissi in prima linea, fino al sopraggiungere di una nuova e più eclatante news.

Consapevole di questo paradigma bulimico e senza pause, Noah Rosenberg ha deciso di andare controcorrente. Ha deciso di andare piano. Di dare spazio, aria e voce a persone, vicende, momenti. “I grandi titoli non sono tutto e nel panorama mediatico contemporaneo sono praticamente sparite le storie” ci ha spiegato Noah, che qualche anno fa a New York ha fondato Narratively, una progetto editoriale online (ma non solo: anche una fucina di eventi e una serie di monografici di carta, da sfogliare, annusare e toccare, rigorosamente “con lentezza”) fatto di narrazioni umane, storie collaterali, vite straordinarie di persone incredibilmente ordinarie.

Narratively è un inno allo slow storytelling, al racconto puro, alla bellezza dello scrivere e al piacere di leggere. Anche online. Anche per più di 10 minuti di fila, visto che tutte le storie pubblicate su Narratively hanno segnalato il tempo di lettura, che di solito si aggira tra gli 8 e i 15 minuti a storia.

Non solo. Narratively è anche una proposta, un esperimento. Un ritorno a una modalità di racconto diversa, che sceglie i suoi subject non per il clamore che possono suscitare, ma per la bellezza che possono regalare a chi ne legge. E non si tratta di testi soltanto: quelli di Narratively sono racconti fatti e pensati per il digitale e per i lettori contemporanei: transmediali e ibridi, sono piccoli mix liquidi fatti di parole, immagini, fumetti, clip video.

Una schermata del portale

“Vogliamo assicurare a chi ci legge un’esperienza di qualità, coinvolgente, emozionante ed empatica” ha continuato Noah, aggiungendo che la loro non è solamente una scelta strategica (collocarsi in una nicchia ancora libera, perché anche quello editoriale in fondo è un business, soprattutto a New York), quanto piuttosto la scelta di “adottare e promuovere un certo tipo di sensibilità, mindset e estetica, e di applicarla ad argomenti di tipo diverso, che in questo modo acquisiscono un taglio speciale e unico”.

La qualità, che vince sulla quantità, in modo circolare: dal punto di vista della produzione, così come da quello della lettura. “Quelli di Narratively – spiega infatti Noah – sono lettori impegnati e pronti a impegnarsi. Ne capiscono lo spirito e decidono di abbracciarlo. E soprattutto, tornano a leggerci”.

Narratively non si ferma qui, però. Oltre a essere un progetto di divulgazione, racconto e storie dal basso raccontate con stile e “grande bellezza”, dotato di lettori fedeli e pronti a impegnarsi, è anche un vero e proprio business. Incredibile, ma vero (anzi: vero soprattutto in America) dalle (belle) storie si può ricavare qualcosa, anche in termini economici. Il tutto mantenendo il “mindset” qualitativo che caratterizza l’intero progetto e che guida dunque anche il rapporto con le realtà (private, corporate, media) che collaborano con Narratively e che scelgono di usare il portale e le pubblicazioni per raccontare (o far raccontare le loro storie), o che ingaggiano il team creativo per la realizzazione di “branded stories” capaci di sedimentarsi e coinvolgere.

Il trucco in fondo è semplice. Basta raccontare, con garbo e con lentezza. Anche sul web.

FRANCESCA MASOERO

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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