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Né millenials né nativi digitali, ma innovatori ibridi

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Ho scelto di cooperare nel momento in cui ho guardato i miei amici e ho visto nei loro occhi quello che avrei voluto vedere nei miei. Si chiama sintonia, determinazione, voglia di cambiare le cose, di prenderti ciò che ti appartiene, di essere utili a se stessi ma anche agli altri, di fare di una passione un lavoro e viceversa, di trasformare il sistema nel quale si vive; è incoscienza, coraggio, paura condivisa, ragionata, capita, quindi lotta, senza sosta.

La mia generazione è quella dei trentenni, non siamo millenials (o forse si), non siamo baby boomer (sicuramente no), non siamo nativi digitali (o in parte si), siamo “ibridi” come direbbero Venturi e Zandonai “ricombinanti secondo modalità inedite e, inevitabilmente, molto fluide”, o “rekombinant” nel senso dato da Bifo qualche anno fa, perché costi quello che costi non rinunceremo a capire, a cercare un senso laddove sembra non esservene alcuno, a creare parole e costruire concetti.

Perché le parole permettono talvolta di rendere visibile ciò che fino a un momento prima non si vedeva”.

Da qui è nata la nostra cooperativa e la nostra voglia di usare, trasformare e creare parole, per progettare comunicazione e informazione.

Oggi, dopo dieci anni, siamo in grado di raccontare un modo diverso di essere cooperativa in Italia, impresa innovativa sociale.

L’Impresa cooperativa prima delle startup

Dall’incontro tra noi è nata un’idea che poi si è trasformata in impresa, quando le startup non c’erano, i maker erano macro-categorizzati come nerd, libero era meglio di aperto, ma in quanto “nuovi” non ci siamo mai auto attribuiti un valore in più rispetto ai “vecchi”, anzi, li abbiamo sempre cercati. Perché è vero, la mia generazione impara in fretta ma per farlo osserva, ruba, rielabora, copia, prova, sbaglia e ricomincia.

E non è vero che ciò che c’era va futuristicamente annientato, perché esistono sacche, isole nella rete non virtuale, che possono essere un ponte tra cose, storie, esperienze. Questo è capitato a noi e questo può capitare a tanti, a partire dall’ecosistema cooperativo che già c’è, esiste, ed è li inconsapevole di essere tale, addormentato per la maggior parte del tempo, impaurito e paranoico per la restante parte.

La sfida è svegliare chi dorme, superare, anche solo temporaneamente, una generazione che ha fatto poco, per essere la generazione che fa ciò che serve e che invece manca.

Il ponte è quel luogo sospeso per definizione che unisce due sponde, due mondi, due terre con in mezzo il nulla. Chi gestisce gli ingressi al ponte ha in mano il potere di cambiare molto anche se non tutto.

È questa la situazione che viviamo. Ed è questa è la situazione che abbiamo vissuto e la piccola storia che abbiamo scritto. Non sarebbe stato possibile se non avessimo incontrato persone, “vecchi”, consapevoli del loro ruolo, coscienti di poter fare da ponte tra il vecchio e il nuovo. Queste persone ci sono, almeno in Puglia, il luogo nel quale la nostra piccola storia è nata, e vanno riconosciute e più che valorizzare i “nuovi” per un fatto meramente anagrafico, si dovrebbe puntare anche su questi “vecchi”, per un fatto strettamente strategico.

Pescatojonico.it, una startup di innovatori

Immaginate di avere la possibilità di parlare con delle persone che nel 1979, l’anno in cui io sono nato, decidono di mettersi insieme alla pari e lottare creando la propria impresa. Non è la storia di una startup innovativa ma quella di un gruppo di pescatori salentini che decidono più di trentacinque anni fa, di mettersi insieme per migliorare le loro condizioni di vita e di conseguenza quelle del proprio territorio, organizzandosi in una cooperativa di pescatori. Sino a quel momento uscivano in barca la notte o all’alba, il pesce non mancava ma regnava incontrastata la logica della catena di Sant’Antonio, specie nei periodi di pesca abbondante. Si pescavano grossi quantitativi di pesce, ma al ritorno a terra erano costretti a caricare il pescato su grossi camion provenienti da altre regioni d’Italia, a prezzi da fame, perché non c’era alternativa, perdendo di fatto il controllo del loro lavoro, del loro pescato, dei loro guadagni. Dal bisogno di lavorare meglio, di guadagnare il giusto e soprattutto di essere padroni del proprio lavoro nasce la loro impresa.

Questa cooperativa di pescatori si è sempre contraddistinta per i valori che ha portato avanti.

L’attenzione per la dignità del lavoro, contro uno sfruttamento intensivo delle risorse naturali e per la salvaguardia delle stesse

E tutto questo attraverso una battaglia per l’istituzione di un’area marina protetta proprio nell’area in cui loro lavoravano e lavorano. Un approccio che incarna quelli che sono i valori cooperativi, un modello di impresa centrato sull’impatto sociale che la sua attività può generare. L’hanno fatto senza studi di marketing, senza studi alti ne bassi, senza consulenti, guru, esperti. L’hanno fatto perché si sono guardati negli occhi e hanno capito che era giusto farlo e non si poteva più rimandare.

Immaginate di ascoltare le loro storie che gesticolano, di essere ipnotizzati dalle loro mani che raccontano. Forti mani grosse che non hanno paura di mostrarsi così come sono, senza trucchi. Tagliate, ferite e fiere, usate, vissute. È stato li che abbiamo capito cosa sarebbero stati capaci di fare. Ed è stato un cortocircuito. Da un lato i pescatori, quasi quarant’anni di esperienza, con il problema di valorizzare la piccola pesca e sperimentare nuove tecniche di vendita; dall’altro l’innovazione, la proposta di cambiare le regole utilizzando tecnologia e una buona comunicazione. Perché parlare di innovazione non ha senso se non serve per risolvere problemi ed estendere le possibilità.

Noi di Pazlab e la sharing economy dell’innovazione

Noi, come cooperativa Pazlab, progettiamo delle soluzioni ed è la soluzione il tema non la tecnologia che viene utilizzata. In questo caso non abbiamo fatto altro che mettere in mano ai pescatori un tablet. Loro, rientrando dalla pesca, prima ancora di raggiungere il porto, inviano un messaggio con il quantitativo di pesce pescato al sistema che automaticamente gira le informazioni agli utenti registrati, comunicando l’orario di approdo, la quantità di pesce per tipologia, il contatto diretto del pescatore. Un’azione semplice, un sistema ancora più semplice ma che nell’insieme assume una portata potenzialmente dirompente. In pochi giorni centinaia di persone seguono il lavoro di questi pescatori attraverso i social, non acquistano solo il pesce che pescano ma la loro storia e il loro modo di intendere il lavoro. E non siamo in una pubblicità del biscione ma nella realtà. Quella vera, quella che spinge le persone iscritte al servizio a chiedersi come mai non abbiano ricevuto il messaggino un determinato giorno. Consumatori addestrati, inconsapevoli della possibilità che un prodotto possa non essere disponibile nel momento in cui lo si desidera, perché a miglio zero, perché che sia prodotto del mare o della terra, i fattori che rendono possibile la sua commercializzazione sono davvero tanti e hanno a che fare con la natura, con la bravura, con la fortuna.

Stanno creando una comunità questi pescatori. Nient’altro. E sono loro a gestire il flusso, il canale, la fonte e il sistema.

Le regole le hanno scelte loro e sarà loro la responsabilità del successo come del fallimento.

Oggi sono allo studio test per sperimentare modalità collaborative di acquisto e di consegna del pesce. Un upgrade della piattaforma che possa consentire forme di interazione dedicate alla comunità degli iscritti, al fine di rendere il servizio un modello. Perché se la cooperativa nasce nel 1979 per migliorare la vita dei propri soci e del territorio in cui svolge la sua attività, allora anche oggi la domanda che si pongono è: come faccio a vendere meglio, stando attento alla sostenibilità e generando valore per chi acquista?Se sharing economy vuol dire creare valore dalla collaborazione e dalla condivisione, questa è sharing economy. Se innovare vuol dire trovare delle soluzioni nuove a un problema preciso, questa è innovazione. Se cooperare significa proporre un modello di impresa in grado di unire lavoro, valore, territorio e comunità, questa è cooperazione. Quella che serve, quella che c’è. Quella da raccontare.

MATTEO SERRA

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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Forse è ora di prendere la patente per andare su Internet