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Nel pantano dell’Agenda Digitale. Ce la faremo con il Governo Letta?

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Un ente attuatore – l’Agenzia per l’Italia digitale– che non è ancora operativo appieno e una marea di decreti attuativi che avanzano con lentezza e ritardi. È questa la situazione dell’Agenda digitale, quel pacchetto di misure che mira a risolvere le lacune italiane su tanti fronti dell’innovazione, dalla banda larga alla scuola alla PA digitale.

È il momento di fare il punto su una questione che prometteva di cambiare l’Italia ma che ora rischia rinvii inammissibili. Da più parti mi arrivano segnalazioni di esperti e addetti ai lavori sugli intoppi che l’Agenda sta affrontando. Alcune verranno pubblicate nelle prossime settimane sul sito specializzato Agendadigitale.eu, che coordino, ma è possibile fare qui una sintesi e un’anticipazione dei principali problemi.

Come mi racconta Paolo Colli Franzone di Netics, “su diciannove novità introdotte dal Decreto Crescita 2.0 (quello che ha dato l’avvio all’Agenda), soltanto cinque sono già effettivamente in vigore e non necessitano di ulteriori passaggi formali; altri sei hanno tempi di entrata in vigore collocati tra la fine di aprile 2013 e il biennio 2014-15”.

I problemi sono negli altri otto, essenzialmente. E sono concentrati nell’ambito eGovernment, ovvero della PA digitale: terreno delicato in cui la forza del nuovo dovrà scontrarsi con le resistenze del vecchio.

La carta d’identità elettronica (o, per meglio dire, il documento digitale unificato”) doveva partire in primavera.

Il noto avvocato specializzato Guido Scorza mi segnala che manca il decreto attuativo- previsto dal Decreto Crescita 2.0 di ottobre 2012- per le modalità di funzionamento dell’Anagrafe nazionale digitale. Questa sarebbe una delle prime forme di unificazione di tutti nostri dati posseduti dalla PA e quindi alba di un futuro in cui non avremo più bisogno di passare da un ufficio all’altro per le pratiche.

«Stesso destino per il decreto in materia di domicilio informatico, per quello sull’innovazione nel sistema dei trasporti e, soprattutto, per “l’Agenda nazionale che definisce i contenuti e gli obiettivi delle politiche di valorizzazione del patrimonio informativo pubblico” e per il “rapporto annuale sullo stato del processo di valorizzazione in Italia” che avrebbero dovuto essere approvati ormai da mesi a norma di quanto previsto all’art.

9», nota Scorza.

Manca il decreto attuativo per la digitalizzazione dei certificati di nascita e morte e quello per il Fascicolo Sanitario Elettronico (che doveva arrivare entro marzo). Idem per quello sugli incentivi fiscali alle startup e per le facilitazioni per gli scavi della fibra ottica.

E’ vero che solo per alcuni di questi decreti si può parlare formalmente di ritardi, perché per molti non c’era una scadenza definita nel Crescita 2.0. Eppure questo stessa indefinitezza è una debolezza del Crescita 2.0 che ora emerge in tutta la sua evidenza.

E’ come se il governo Monti fosse stato consapevole che molte novità dell’Agenda erano complesse, richiedevano tempi lunghi, incerti e complicati bracci di forza tra diverse competenze d’ancient regime.

Allora ha decido di affidarsi a decreti attuativi in larga parte sine die, per di più mettendoli sotto l’egida di ministeri diversi, che devono ora coordinarsi.

Si sta materializzando, insomma, la critica più comune fatta al Crescita 2.0 da parte di associazioni come Confindustria Digitale e politici come Paolo Gentiloni (PD) nei mesi scorsi: troppi decreti attuativi (una trentina), governance troppa frammentata fra diversi ministeri.

Dello stesso problema soffre l’Agenzia per l’Italia Digitale, attuatore di molte delle misure eGovernment e smart city: non ha ancora un comitato direttivo, visto che per definirlo devono decidere tante teste, in base al Crescita 2.0. Avrà infatti rappresentanti da vari ministeri, dai Comuni, dalle Regioni.

L’Agenzia avrebbe già dovuto definire la strategia per gli open data e le smart city e ovviamente non può farlo finché non è operativa appieno. Si noti che l’Agenzia doveva servire appunto per centralizzare molti compiti che, per la transizione italiana al digitale, negli anni scorsi erano sparsi tra diversi enti e dipartimenti. Ora siamo bloccati in un interregno in cui questi ultimi sono paralizzati, dovendo cedere la staffetta all’Agenzia, che però non è ancora a regime.

Gli intoppi non riguardano solo le misure del Crescita 2.0, ma anche quelle precedenti, iscritte nel Codice dell’amministrazione digitale. Il Sole24Ore del 23 aprile ricorda che mancano i decreti attuativi per le firme elettroniche, il documento informatico, la conservazione sostitutivi, il protocollo informatico, la fattura elettronica obbligatoria.

A tutto questo si aggiungano le norme che ci sono ma che vengono rispettate solo da pochi uffici, come mi dice un altro noto avvocato di settore, Ernesto Belisario: l’accessibilità dei siti della PA e il divieto a comunicare in forma cartacea, tra l’altro.

Anche per l’enforcement serve una regia forte, un’Italia che ci creda fino al midollo, alla rivoluzione digitale. Ma è proprio quello che adesso manca, nella classe politica in primis. Si commette l’errore di considerare il digitale una questione secondaria di fronte ai veri problemi dell’Italia: la crisi economica, la disoccupazione, la crescita azzerata. Il retro pensiero, di molti, anche sedicenti esperti del settore, è “in emergenza affrontiamo prima i grossi problemi, se ci avanzano tempo e risorse pensiamo al digitale”. Sbagliato. Sbagliato perché, come ricorda Francesco Sacco dell’università Bocconi, il digitale è lo strumento più efficiente per tutti i principali problemi italiani.

Bisogna scommetterci, per uscirne. Ma per farlo la politica deve cambiare la propria testa. Finora ha dimostrato di non riuscire a liberarsi delle vecchie logiche da Paese industriale. Ce la farà con il neonato governo Letta?

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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