“Ciao, da dove vieni?”“Dall’Italia, sono un maestro. E tu?”“Io sono serbo”.Per Milan, 9 anni, la campanella dell’inizio dell’anno scolastico è suonata in un Paese che per lui non esiste: il Kosovo. Lui è nato a Velika Hocha, una delle circa 300 enclavi serbe di uno Stato che continua ad esserci solo sulla carta.
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Milan, non è mai uscito dal suo villaggio: la sua scuola è lì, il suo tempo libero lo trascorre in strada o in quel campo da calcio dove l’Uck, l’esercito albanese di liberazione del Kosovo, nel 1998 fece ritrovare i brandelli dei corpi di un’intera famiglia rapita per il businnes degli espianti d’organo. Lui, non era ancora nato quando nella sua meravigliosa terra, ricoperta di vigne e orti, si spargeva sangue in nome di un’etnia e del dio denaro.
Milan, non dovrebbe portare alcun odio nei confronti degli albanesi che vivono nei centri che attorniano l’enclave ma con loro non gioca e non vorrebbe nemmeno farlo.
Non conoscerà mai una ragazza albanese perché i matrimoni avvengono tutti in maniera combinata all’interno dell’enclave. Quando lo vedi scarrozzare in bici di fronte al monumento dedicato al traffico d’organi alle porte del paese, unica opera scultorea di questo genere in Europa, ti rendi conto di quanto potrà essere complicata la sua storia e quella del suo Paese, ancora diviso, nonostante dal 2008 sia stata riconosciuta una sola bandiera e un solo stemma oltre ad una Costituzione.
Per capire il Kosovo, basta entrare in una scuola. Grazie a padre Francesco, monaco italiano della Chiesa ortodossa, abbiamo la possibilità di mettere piede nelle aule di Velika Ocha.
La prima cosa che balza all’occhio è l’assenza delle cartine geografiche. In qualsiasi classe in Europa, in Africa o negli Stati Uniti la mappa della propria regione o del Paese fa bella mostra appesa alla parete. Lì non c’è. Ancora troppi muri psicologici, culturali e reali separano questa terra. Persino il sistema d’istruzione non è unico. Gli albanesi seguono il sistema educativo kosovaro mentre quelli serbi vanno in scuole legate al sistema che segue il curriculum della Repubblica di Serbia: la scuola primaria va dai 6 ai 16 anni; successivamente si passa alla pre-università e poi alla facoltà ma i serbi non possono accedere agli atenei del Kosovo.
Guardo le aule: i disegni raccontano la storia del loro Paese, sulla lavagna c’è ancora la scritta in cirillico e alle pareti si intuisce un gran lavoro sulle materie scientifiche.
“I ragazzi qui – spiega il monaco ortodosso – apprendono un metodo per approcciare lo studio che è migliore di tanti modelli educativi europei altrimenti non si spiegherebbe come mai tanti ingegneri serbi oggi in Canada hanno sono apprezzati e considerati. Già alla scuola primaria si insegnano serbo, storia, matematica, scienze, biologia, chimica, lingua straniera (Inglese e russo). Si forma una cultura scientifica”.
Anche la competizione è alta: padre Francesco per spiegare come funziona la carriera scolastica di un ragazzo serbo prende in mano il gessetto. Scrive i numeri dall’uno al cinque e ci spiega che o si supera il terzo livello come media o non si supera l’anno. Si nota l’assenza di tecnologia: nelle aule non c’è un solo computer, non c’è un videoproiettore, una lavagna multimediale.
Non c’è la connessione.
Il monaco sogna di poter realizzare un laboratorio di informatica ma prima deve preoccuparsi di assicurare il riscaldamento, di sostenere la scuola contribuendo al materiale didattico (solo nel 2014/2015 sono stati investiti 3mila euro di materiale didattico), di proseguire il progetto iniziato lo scorso anno d’introduzione di una nuova lingua. Non manca, invece, la biblioteca ma i prestiti in un anno sono stati solo dieci. Eppure nello scaffale all’ingresso della scuola un testo non manca: è il “Capitale” di Karl Marx. “E’ rimasta l’impostazione comunista: è una scuola elementare – spiega padre Francesco – con un approccio fortemente materialistico. La strada da fare è tanta: guarda questa bacheca. Noi qui affrontiamo il tema dell’alcolismo, della droga ma per quanto riguarda il riciclo dei rifiuti per fare dei volantini di sensibilizzazione dobbiamo usare le parole in inglese perché in cirillico non ci sono”.
La scuola nell’enclave è una risorsa: non è un caso che il 96% dei bambini si iscrive alla scuola primaria e il tasso di alfabetizzazione raggiunga il 91,9% dell’intera popolazione. La criticità della situazione è legata alla disoccupazione che ha raggiunto – secondo i dati della Caritas – picchi del 60% non solo per i giovani della popolazione. Lo sa bene quest’uomo italiano che ha scelto di dedicare la vita a questa terra. E’ uno di quegli incontri che non dimentichi: basta osservare il mazzo di chiavi che porta in tasca per capire quanti “miracoli” sta cercando di compiere. A Velica Hocha ha ristrutturato una antica “viniza” trasformandola in un centro d’aggregazione per i giovani dov’è riuscito a dare lavoro a due di loro.
Ai dati che raccontano di un Pil procapite di 7.600 dollari, di una popolazione sotto la soglia di povertà che raggiunge il 30%, padre Francesco ha risposto cambiando la cultura dell’enclave che oggi è pronta a dare accoglienza a più di 100 persone e ben presto conierà una propria moneta.Lui crede che siano “nostro Signore” e il santo re Stefano, fondatore di Decani, a volere tutto questo ma è senza dubbio una rivoluzione in un Paese nel cuore dell’Europa dove ci sono ancora 2000 militari italiani e 150 carabinieri che sorvegliano i monasteri ortodossi e la città di Mitrovica, la nuova Berlino, divisa ancora in due da un ponte cosiddetto della pace.
Una storia senza fine, un Paese stuprato dall’odio, dove tutti sanno che a Urosevaz c’è un campo di addestramento per l’Isis e negli hotel di Pristina si allevano prostitute per l’Occidente. Per andare in Europa son pronti a tutto: c’è persino chi tra i ragazzi si fidanza con una non più giovane signora svizzera. Intanto a Gorazdevac, un villaggio che ha pagato un tributo altissimo alla follia nazionalista albanese, due sere fa un’ auto con quattro criminali terroristi a bordo è arrivata nell’enclave, lanciando una bottiglia molotov contro un piccolo monumento e sparando all’impazzata. I terroristi hanno avuto il tempo di marchiare con disegni osceni le abitazioni della popolazione serba, di crivellare a colpi di kalashnikov le auto con targa serba, di invitare le persone spaventate e serrate nelle loro abitazioni a scendere in strada per affrontarli.
E’ la cronaca di una storia che non cambia. Purtroppo.
ALEX CORLAZZOLI9 ottobre 2015