Oggi competiamo con loro, ma se impariamo a guidarle, le macchine non ci sostituiranno

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Una tesi da rifiutare: c’è meno spesa e scarso investimento; il lavoro se lo prendono i computer e il rimanente è spostato all’estero.Di fatto molti lavoratori sono schiacciati tra le vecchie imprese che non innovano e la produttività crescente.

Ogni volta che sottraiamo il tempo della lavorazione umana alla produzione il suo costo crolla. E il mondo cambia.

Perché se escludiamo l’uomo dai cicli ripetitivi della produzione, con l’automazione subentra la legge di Moore. Le persone non possono migliorare con quel tasso o, dal versante economico, non è possibile competere dimezzando il costo del lavoro ogni 18 mesi.

Ma per questo dobbiamo concludere che abbiamo uno stratosferico surplus di forza lavoro? No.

L’automazione non è altro che una “macchina che guida altre macchine”.

Dobbiamo concentrarci sulle persone e sulla loro formazione per lavorare insieme alle macchine e trarne il meglio.

Invece la logica darwiniana, accoppiata al Taylorismo, è ancora viva: o si riesce a tenere il ritmo produttivo delle macchine oppure si soccombe. È una doppia tagliola, che misura però solo la quantità di lavoro.

Le prime conseguenze sono che le persone con competenze manuali e ripetitive, spesso facenti parte della classe media, scompaiono.

Queste persone, noi, sono sfruttate e sempre più prossime a essere rimpiazzate dall’automazione.C’è un beneficio come consumatori, perché vediamo più possibilità di acquistare oggetti migliori a minor prezzo, ma di certo si paga come lavoratori, data la compressione dei salari. Ormai l’assemblaggio è stato spazzato via prima dalla globalizzazione, poi dai robot.

Scoraggiati da tali metodi, i lavoratori sono sommersi da messaggi del tipo: ognuno deve crearsi il proprio lavoro. È un’associazione seriale pericolosa, una scorciatoia non sostenibile per tutti.

Si parte dall’assunto che non c’è lavoro, meglio crearselo

La necessità di crearsi un lavoro si associa al fascino libertario di diventare imprenditore. Pertanto si avvia una startup con un’idea per raccogliere finanziamenti. Si va avanti con il pensare che con gli esempi dei vincitori, sovraesposti in modo micidiale dai media, questo nuovo mondo porti in ogni caso alla prosperità.

Quando si passa, in tempi troppo rapidi, dalla necessità di lavorare a rincorrere una ricchezza facile, c’è un pericolo per tutti.

Quando si smette di esaltare, spesso i media eccedono d’altro canto nell’alimentare la paura elencando i lavori che spariranno tra 10 anni.

È una critica troppo asimmetrica, perché non possiamo nemmeno immaginare i lavori che si creeranno nello stesso lasso di tempo. Ancora più preoccupante l’imprevedibile reazione dei legislatori di fronte a queste novità che richiedono una completa rivoluzione anche nella politica industriale.

Il futurologo Raymond Kurzweil afferma che abbiamo avuto tutto il progresso del ventesimo secolo in modo analogo dal 2000 al 2014. Pensare a cosa ci aspetta per i prossimi 7 anni con questo ritmo apre sia infiniti pericoli sia incredibili possibilità. Da sfruttare.

Avere una vision

Ma nel frattempo perdiamo competitività, perché continuiamo ancora con il metodo novecentesco tutto basato sull’efficienza, sulla misurazione di attività, anche se ormai siamo entrati nell’era della conoscenza in cui alle persone si richiede empatia e intuito oltre che razionalità.

In un’organizzazione che da gerarchica si muove sempre più per linee orizzontali, quindi a rete, c’è bisogno d’infondere più conoscenza derivante da discipline sociali, non esclusivamente tecniche. Solo che misurare e cogliere al meglio le personali motivazioni è molto più difficile, pertanto si usa l’altra scorciatoia, il cronometro.

Vedere il lavoro conteso tra la macchina e le persone come un gioco a somma zero è un errore, una fallacia interpretativa, perché non si può arrivare al risultato che un robot sostituisce dieci lavoratori e fermarsi qui. Quel lavoratore che gestisce le macchine, in teoria, dovrebbe guadagnare uno stipendio con cui darà lavoro a cinque persone nel luogo in cui vive, come estetisti, meccanici, dentisti, parrucchieri, etc. (fonte Enrico Moretti, la Geografia del lavoro).

L’automazione è solo produttività, il vero progresso è l’investimento sulle persone.

Pensiamo a cosa accadrà appena si diffonderanno le auto e i camion che si guidano da soli, e i droni. Sono tutti esempi di macchine che non fanno solo azioni ripetitive, ma compiti che richiedono sofisticati algoritmi per gestire ogni situazione sulla strada. Sta arrivando il momento in cui guidare sarà inadatto agli umani: le troppe distrazioni e l’affidamento ai sistemi di sicurezza attiva e passiva la rendono un’attività per noi troppo pericolosa e poco produttiva.

Dobbiamo cedere strada al software, anche per guidare. (All’inizio ci saranno tanti errori e morti dovuti ai bachi, poi pian piano si salveranno sempre più vite.)

Occorre infatti più formazione e più lavoro, servono persone che comprendano mercati sempre più competitivi e globali.

Il valore dell’impresa non è solo al suo interno, ma è anche nel modo in cui si relaziona con la sua rete di partner e clienti, con interlocutori e scenari che cambiano continuamente.

Le macchine della quarta rivoluzione industriale

L’ingegnere Roberto Vacca ci viene in aiuto quando asserisce che: “Formare, dirigere, monitorare una squadra è un lavoro diverso che oltre alle conoscenze informatiche, richiede abilità organizzative, sensibilità, immaginazione.”

Il caso concreto della quarta rivoluzione industriale (chiamata Industry 4.0) riguarda molto più le persone e i processi che i prodotti. Solo con questi investimenti riusciremo a re-importare in Europa produzioni per avere una produttività superiore, affrancandoci dal costo del lavoro, sempre più marginale.

La tecnologia per produrre ha costi decrescenti, ma solo la crescita delle persone fa progredire le imprese e il Paese.

È il modo per passare dall’iniziale tesi pessimistica a quella ottimistica.

L’età della pietra finì non perché finirono le pietre, ma perché quell’idea fu superata dalla scoperta di altre risorse che fecero fare un balzo all’umanità.

L’età della produzione industriale, marcata dal cartellino e dalla mera automazione, è finita.

Sono le idee (invenzioni) ad averla chiusa e saranno i nuovi metodi per applicarle (innovazioni) a immergerci nel futuro.

MASSIMO CHIRIATTI

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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