Oggi gli inventori non hanno più la barba bianca e fanno start up

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Caro Leonardo da Vinci, dalle tue parti di certo si sarà saputo della Intel che investe nella start up di un ragazzo di 13 anni, Shubham Banerjee, che mettendo assieme talento e mattoncini Lego ha trovato il modo di abbattere i costi di costruzione di una stampante Braille.

Shubham Banerjee e la sua stampante Braille – Credits: Braigo Labs

Adesso non ti arrabbiare, lo sappiamo che di profezie te ne intendi, che non è mica da tutti immaginare che “Parleransi li omini di remotissimi paesi l’uno a l’altro e risponderansi” (Codice Atlantico, “Dello scriver lettere” 1033 verso) o che “in cento miglia cento case, ne le quali stia cento guardie, che faranno per sotterrani condotti sentire una novella in tre quarti d’ora” (Manoscritti, MsB, 23 recto) grazie a una catena di “citofoni” in grado di trasmettere velocemente notizie.

E’ che a noi questa cosa che al tempo dei nativi digitali gli inventori siano tanti e non abbiano più la barba bianca un po’ ci impressiona e molto ci fa riflettere

Perché non è che si può vivere di luoghi comuni, di cose tipo “ma perché queste cose non accadono da noi”, “perché i nostri ragazzi non hanno lo stesso approccio” e così via discorrendo.

Raffaele La Ragione, giovane mandolinista, una delle storie che fanno parte del network #lavorobenfatto

No, non si può, perché non è vero e perché così non si va da nessuna parte. Da qui l’idea di scriverti, di riflettere insieme a te intorno al rapporto tra talento e organizzazione. La nostra domanda – c’è sempre una domanda all’inizio – ha anche una versione pop, tipo “a far vincere un’idea, un progetto, un’impresa, è più il talento o l’organizzazione?”, però forse è meglio spiegarsi bene, che in queste faccende la fretta non è mai una buona consigliera.

Si potrebbe cominciare così. Sono i processi attivati dal talento con le proprie idee, con il lavoro, le connessioni, a determinare la storia e il carattere, i successi e i fallimenti dell’organizzazione per la quale lavora? O a fare la differenza è la cultura, la storia, l’organizzazione della struttura nella quale il talento studia, inventa, progetta, sperimenta, in una parola lavora?

I nostri punti di partenza si possono invece sintetizzare così: il riconoscimento sociale di ciò che le persone sanno e sanno fare è sempre più una componente essenziale non solo del loro senso di autostima, ma anche dei processi di costruzione di senso delle organizzazioni, che in fondo sono fatte da persone; a dispetto della poca linearità, delle tante contraddizioni e dei nuovi taylorismi qui e là insorgenti, le persone con il loro sapere, il loro saper fare, le loro idee, la loro intelligenza diventano sempre più importanti per (provare a) vincere la sfida della qualità, dell’efficienza, della competitività; questa linea di tendenza in vario modo amplifica la necessità di strutture, sistemi e contesti organizzativi di elevata qualità, in grado cioè di cogliere, accompagnare, promuovere e moltiplicare il talento delle persone.

La nostra parola chiave, quella a nostro avviso più in grado di tenere assieme talento e organizzazione, di dare cioè senso a questo doppio movimento verso i soggetti e verso le strutture, è merito

Il nostro messaggio potrebbe essere: ridurre le disuguaglianze che trovano la loro origine nell’organizzazione sociale e dare valore al merito. Il merito come fondamentale indicatore da un lato delle abilità – capacità delle persone e delle strutture a ogni livello e in ogni contesto (il merito come l’essere degno, l’aspirare a un riconoscimento; il merito come diritto alla stima acquisita in base alle proprie capacità e/o alle cose fatte) e dall’altro della qualità e dell’efficacia della loro azione.

Il merito come leva per ampliare, rafforzare, dare senso alle relazioni tra soggetto e struttura, individuo e organizzazione.

Il merito come zona di confine (spazio di intersezione) tra il pensiero occidentale e quello orientale, laddove si può agire utilizzando i fattori portanti insiti nelle situazioni, puntando sul polimorfismo, sulla metis, sull’intelligenza, sul potenziale delle persone e delle organizzazioni. Il merito come visione che in vario modo condiziona e orienta la qualificazione del sistema educativo e l’organizzazione del talento. Il merito come valore, come punto di riferimento nella definizione di strategie e azioni volte a superare squilibri e divisioni, a definire le regole di società meno ingiuste perché più in grado, per l’appunto, di garantire a ciascuno eguali opportunità nell’espressione e nella valorizzazione del proprio talento per tutto l’arco della vita. E’ vero, è un cambiamento difficile quello che auspichiamo, in particolare per un Paese dove la cultura e le pratiche familistiche e amorali hanno radici così profonde e lontane.

Però difficile non vuol dire impossibile, e in ogni caso l’Italia che ci piace non può fare a meno di dare valore al merito, di riconoscere il lavoro ben fatto, di valorizzare chi fa le cose per bene perché è così che si fa

Come vedi alla fine ridiventa una questione di frame, di definizione delle cornici cognitive, di collocazione dei flussi di eventi nel contesto più appropriato, di senso e di mappe da condividere, di territori da comprendere, di storie e processi organizzativi da conoscere e da imitare, di scelte da realizzare. Come dici? Si si, hai ragione, la questione merito se ne porta appresso tante altre, in particolar modo in contesti caratterizzati da elevata domanda di innovazione, ma ne parliamo un’altra volta, che questo sta diventando un romanzo invece di una lettera.

Che cosa? Non si può parlare di merito senza dire almeno una parola su capacità di networking, processi di competizione collaborazione e classi dirigenti? Guarda che i post troppo lunghi li leggono in pochi. Comunque, visto che insisti, proviamo ad accennare da uno specifico punto di vista ai primi due e poi li lasciamo assieme al terzo per la prossima occasione. Per molti versi i sistemi di relazione erano importanti anche ai tuoi tempi, ma oggi la capacità di networking rappresenta una componente fondamentale della riuscita di un’idea o di un progetto, a livello delle strutture e a livello delle persone. Due le parole chiave: competizione e collaborazione. Vince chi conquista la priorità, chi raggiunge per primo un determinato risultato, chi dimostra originalità di vedute e abilità di attuazione. Ma i campi di applicazione sono così vasti che non si vince senza condividere dati, informazioni, punti di vista, conoscenza

Caro mastro Leonardo, noi ci sbattiamo la testa da anni. Il valore del lavoro come bisogno in sé. La consapevolezza che qualunque lavoro merita rispetto. La necessità di lavorare con impegno per condividere una missione, quella stessa che fa grande le persone, le comunità, i Paesi. Le connessioni tra lavoro e riconoscimento sociale del suo valore da un lato e possibilità di vivere vite più degne di essere vissute dall’altro. Lo sguardo rivolto al futuro perché disporre di un’ombra lunga del futuro sul presente vuol dire poter contare su quella risorsa, preziosa per ciascuno di noi, che è l’avere un’identità. Il ruolo delle classi dirigenti. E qui mettiamo davvero la parola fine, naturalmente non prima di averti inviato i nostri più riverenti e affettuosi saluti.

ALESSIO STRAZZULLO E VINCENZO MORETTI

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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