Olimpiadi 6. L’inglese e un beach volley da nativi digitali

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Cronache presenti da un mondo futuro. A parte i marchi legati al Cio, la campagna pubblicitaria più massiccia in questi giorni, e si parla di outdoor, ovvero di affissioni, è quella di Google translator. E si capisce perché. Qui pochi parlano inglese, persino in ambito olimpico sembra che il criterio di selezione del personale sia stato beffardamente questo: meno lo parli, più sei candidato a un ruolo di interazione col pubblico. Pure il Cio ha dato un suo contributo, non proprio fair, per complicare le cose: anche negli impianti sportivi continua a considerare sua lingua ufficiale il francese, per seconda viene la lingua del mondo vero e non dei diplomatici, l’inglese, e per ultimo viene il portoghese della gente.

Il ragazzo al banco, prende il computer, me lo mette davanti e scrive in portoghese “Scrivi!”

Per una settimana ho cercato anche nei negozi qualcuno che capisse l’inglese, soprattutto qualcuno con cui capirsi, non sentendomi in difetto a non sapere il portoghese.

Poi, la svolta. Perdo il telefono alla cerimonia inaugurale. Ne prendo uno di ripiego brasiliano: l’attivazione del contratto sembra una vacanza rispetto alle abitudini italiane, si fa tutto via sms. Però Whatsapp non funziona, dunque vado in un negozio della compagnia che ho scelto, quella che è partner locale dei Giochi. Parli inglese? chiedo, e non mi arriva il solito Nao come risposta. Anzi, il ragazzo al banco, prende il computer, me lo mette davanti e scrive in portoghese “Scrivi! “. E cominciamo cosi’ la nostra discussione grazie a Google ovviamente arrivando alla stessa conclusione a cui saremmo giunti parlando di persona e non per interposto pc : “Non mi occupo io di queste pratiche, il nostro è solo un negozio in franchising, ti devi rivolgere alla compagnia”.

I TAXI

Con i taxi non è diverso. E si parla di taxi per tanti motivi: non è stata completata una linea della metropolitana che sarebbe stata essenziale; la corsia delimitata dalla faixa verde è riservata alle auto ufficiali; gli autobus sono sempre stracolmi di gente, in una città che è grandissima, e in cui persino le distanze tra un cluster olimpico e l’altro sono da trasferta e non da semplice spostamento. Non si capisce se è una maledizione o una consolazione l’impegno assunto dal comitato organizzatore locale di lasciare come eredità dei Giochi, la benedetta legacy, un miglioramento della mobilità urbana. Un comunicato ufficiale dice che nel periodo 2009/2016 il sistema dei trasporti cittadini ha portato a un aumento dell’uso dei mezzi più capienti dal 16 al 63%.

I taxisti più giovani non si fanno problemi. Caricano chiunque, e appena il cliente è a bordo interrogano la app

Torniamo ai taxi. Detto che su molte auto si può pagare con carta di credito, i tassisti si dividono in due categorie: alcuni dei più anziani nemmeno sanno dove si trova il Parco Olimpico; quelli più giovani, e si parla anche dei molti lavorano con Uber, non si fanno problemi. Caricano chiunque, e appena il cliente è a bordo interrogano la app. In un minuto ti dicono in quanto tempo si arriverà a destinazione. Solo che poi loro seguono pedissequamente le istruzioni del navigatore anche quando per tutta evidenza ti trovi davanti a una strada chiusa o alla possibilità di scegliere una strada che si dimostra più veloce, una tentazione quasi inarrestabile in una città che è letteralmente soffocata dal traffico. Dunque, da una parte abbiamo gli analfabeti digitali che non usano o non sanno usare le app, dall’altra parte abbiamo i nativi digitali a cui manca a volte l’intelligenza emotiva che le app non sono infallibili, se non altro perché le realizzano delle persone.

Il beach volley, arrivato ai Giochi nel 1996 ad Atlanta, è uno sport da nativi digitali

E questa storia dell’intelligenza emotiva che manca ai nativi digitali che crescono con certezze che non sono loro, senza avere mai un dubbio, ci riporta alle Olimpiadi, quelle praticate. Qui a Rio sta facendo scalpore un giocatore italiano di beach volley. Bisogna capirsi: il beach non è nato qui, se ne contendono la paternità le Hawai e la California. La federazione internazionale dice che la disciplina è nata alle Hawai nel 1915 e poi si è diffusa in Italia, Russia e India. Però la spiaggia di Copacabana è il tempio del beach volley e infatti è qui che si trova l’arena dedicata.

Il beach volley, arrivato ai Giochi nel 1996 ad Atlanta, è uno sport da nativi digitali, e da nomadi moderni che inseguono il sole tutto l’anno. Siccome il codice è la potenza, tutti si sforzano di battere sempre più forte per mettere in difficoltà gli avversari. Fino a quando arriva Adrian Ignacio Carambula, nomen omen ha scritto qualcuno sui social di cui il giocatore azzurro nato in Uruguay è diventato una star. Lui, che non ha un gran fisico, 1.80 contro avversari mediamente 15 cm più altri, invece che la app usa l’intelligenza emotiva e spara le sue battute in cielo. Cioè fa una cosa inaudita per i suoi avversari che non sanno reagire all’imprevisto, come se davvero fosse imprevisto che un pallone che cade così in alto sia più difficile da gestire, specie in uno sport che essendo felicemente all’aperto magari ti manda in tilt perché il sole ti arriva negli occhi.

Ecco, questo viene da pensare dopo una settimana a Rio: che è sempre bello fare il tifo per Davide, specie adesso che Golia è ipertecnologico.

LUCA CORSOLINI

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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