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Olimpiadi 8. Social sport, missione favela

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Prima ancora che arrivassero Facebook e Twitter, lo sport era già il più antico e collaudato dei social network. In Italia però non ne ha mai avuto piena consapevolezza. Pochi sanno ad esempio che la prima società sportiva è nata in Italia nel 1844, addirittura prima dell’Unità del Paese. Poi, in un furore modernista, che si traduce anche nella pretesa dei genitori e dei nonni di portare i figli a fare sport solo in mega impianti al coperto, ci si dimentica di cosa è stato lo sport nel dopoguerra, e loro, genitori e nonni, dimenticano le lezioni imparate sbucciandosi le ginocchia all’oratorio per praticare ogni genere di discipline sulla strada, la palestra più grande d’Italia.

Oggi non ci sono, proprio grazie ai social, sport minori

Di sicuro i social stanno obbligando oggi lo sport a essere più e meglio social e sociale.

Lo dimostra anche il caso, che ha avuto mille declinazioni, non tutte logiche, delle arciere cicciottelle, subito difese dalla rete. E pure questo episodio serve da lezione per dire che a) oggi non ci sono, proprio grazie ai social, sport minori; b) il tempo dello sport non è più quello scandito dai regolamenti, con le partite di calcio che finiscono al novantesimo, ma quello deciso dalla gente, dunque da uno stato di connessione 24 h; c) lo sport oggi è dappertutto, non solo in stadi e palestre facilmente riconoscibili.

Missione favela

Questa, anche questa, è la premessa che ha mosso una delegazione del Coni verso Rocinha, la favela più grande di Rio de Janeiro, che oltre tutto, in quel gioco di specchi che è il Brasile, è il panorama quotidiano che si vede dall’elegantissima Casa Italia.

Lo sport è in missione e non può rifiutare di giocare certe partite. Anche per calcolo, perché, come ha detto Giovanni Malagò, il numero 1 dello sport italiano, oggi alle aziende che muovono i budget i risultati, ovvero le misure sportive, interessano poco, si fa molta più attenzione alla misura sociale e social, e non si tratta di una ripetizione, di un fenomeno.

Non basta portare un pallone a un bambino, bisogna trasmettergli la passione per tutti i giochi che si possono fare

Quello che conta è però un impegno serio: bisogna essere convinti per essere convincenti. Non basta portare un pallone a un bambino, bisogna trasmettergli la passione per tutti i giochi che si possono fare. E il primo è sempre quello che ti fa uscire dalla solitudine per trovare una buona compagnia.

Così, ricco di tanti atleti, il Coni ha cercato di farli diventare squadra. Diego Nepi, il direttore marketing, ha cercato non semplicemente soldi ma sintonia ideale sul progetto tra i partner di questa stagione così ricca, e ha trovato buona risposta, perché convinta, in EA7 Armani, Dhl, Unipol Sai, e Kinder+sport, che è sempre Ferrero ma merita una spiegazione in più. Il progetto Joy of moving, educazione sportiva e alimentare, è declinato su scala mondiale, porta i ragazzi a fare sport perché ne conoscano e riconoscano i valori.

Olimpiadi, straordinaria occasione

Qui in Brasile ancora non era partito, i Giochi sono stati la straordinaria occasione. Poi, servivano gli allenatori. E questo è il ruolo che è stato assegnato, e interpretato benissimo a dire il vero, ad Action Aid. Così è nato il progetto Olimpiadi. Al centro, il diritto al cibo e allo sport per i bambini delle favelas. Cosa sono le favelas? Tutti pensiamo di saperne abbastanza, qualcuno ha pur visto il film La città di Dio ambientato nella omonima favela.

Che diritti puoi avere in un posto che non riesce nemmeno a contarti?

Ma c’è un dato che dice molto di più: a Rocinha vivono, secondo le associazioni locali, 150 mila mentre l’ultimo censimento, su 120 ettari, ne ha contate circa 70 mila. Che diritti puoi avere in un posto che non riesce nemmeno a contarti? Per questo il programma prevede lo svolgimento di attività che consentano l’esercizio di una cittadinanza attiva. Sembrano paroloni, sono invece straordinaria concretezza, perché mirano al miglioramento dei diritti umani durante Olimpiadi e Paralimpiadi, sperando che gli eventi siano una semina per raccolti da continuare a fare spente le luci negli stadi. Si vuole migliorare il senso di appartenenza grazie allo sport, e, in estrema sintesi, si vuole che lo sport sia casa tutti, in primis i bambini: un posto dove mangiare, imparare, divertirsi. Un posto sicuro per i bambini e per le famiglie.

L’esempio di Andrea Lucchetta

Adesso ovviamente la sfida è quella di continuare questo… campionato anche tornati a casa. E per fortuna ci sono già gli esempi che ci fanno ben sperare. Il primo ha un nome e un cognome: Andrea Lucchetta. Lui è venuto addirittura in anticipo rispetto ai Giochi ed è andato nelle stesse favelas a incontrare bambini che ridono felici quando rivedono la sua cresta. Li ha fatti giocare alle Olimpiadi con materiali per loro quotidiani, anche riciclando gli oggetti. Poi c’è il Volontariato Sportivo Internazionale codificato dal Csi per brillante intuizione di Massimo Achini: sono due estati che ragazzi italiani partono per il Mondo, diciamo pure per quello che retoricamente chiamiamo Terzo Mondo, per essere dei missionari laici. Vanno in giro a raccontare, credendoci, perché lo hanno provato sulla loro pelle, che lo sport è il più antico e collaudato dei social network. Se ne deve solo ricordare più spesso per essere, come diceva Mandela, in grado di cambiare il mondo.

LUCA CORSOLINI

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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