OpenRicostruzione: A San Felice sul Panaro c’è bisogno di futuro

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A volte diamo per scontato troppe cose e ci lasciamo trasportare dalle emozioni e dalla storia ufficiale: per questo nasce “storie da Open Ricostruzione” ed è per questo che oggi intervistiamo Anna Confente.

Cresciuta nella zona del sisma, mamma di due ragazzi, infermiera del Centro Salute Mentale di Mirandola e moglie di un cittadino che più di altri ha avuto un peso nella comunicazione dell’emergenza.

Anna sembra apprezzare molto l’opportunità di dare parola ai propri pensieri e il suo punto di vista parte prima della notte del 20 maggio e ci aiuta davvero ad unire i punti dei nostri racconti. Forse illumina un lato scomodo della medaglia. Per guardare al futuro con preoccupazione.

San Felice sul Panaro era, per i giovani, poco stimolante già prima del terremoto.

Ok, una volta c’era poca disoccupazione e i servizi alla persona sono sempre stati efficienti, ma sulle tematiche per i giovani e sulle nuove tendenze del mondo del lavoro la situazione era già difficile prima, figurarsi ora.

Per me che sono nata qui è difficile ammetterlo, ma negli anni si sono perse opportunità culturali evidenti: basta dire che l’unico luogo d’incontro per i più giovani in zona è un McDonalds. Non c’è una discoteca, una enoteca o birreria.

Ora, dopo il 20 maggio, cresce la preoccupazione nel vedere crescere i miei figli senza una vita sociale e culturale all’altezza. E mi chiedo cosa troveranno nel loro futuro.

Poi arriva il 20 maggio: dov’eri e cosa è accaduto nei primi momenti?

Eravamo a casa: la scossa del 20 maggio essendo avvenuta di notte e di sabato ci ha, se possiamo dirlo, facilitato perché almeno sapevamo dove erano tutti i nostri cari.

Chiami la mamma, i parenti, alla mattina i colleghi di lavoro… Poi è accaduto mentre si dormiva: appena usciti di casa ricordo che ci chiedevamo, io mio marito e miei due figli, dove fosse stato l’epicentro. L’unico danno esterno alla casa era al comignolo, quindi nulla di preoccupante. Tra una scossa di assestamento e l’altra, entravamo e uscivamo da casa recuperando le cose essenziali: acqua, coperte per dormire, chiavi della macchina e cellulari. Fu così che mio marito Gianluca ha cominciato a mandare i primi tweet. E fu così che capimmo che l’epicentro era sotto di noi. A S.Felice sul Panaro, il mio paese. Ma non avevamo ancora capito l’entità dei danni… poi passarono i carabinieri ad avvertirci di non rientrare in nessuna abitazione.

Così decidemmo di andare a casa di mia sorella e mia madre, che abitano a circa 500 metri da me, e fu lì che vedemmo la chiesa del paese crollata!

Ci siam fermati e lì ho capito che la mia vita sarebbe cambiata per sempre. Avevo davanti a me una serie di eventi non quantificabili in quel momento ma avevo capito che indietro non si tornava.

Così, nei giorni successivi decisi di andare a dare una mano: sono infermiera e qualcosa di utile potevo farlo per gli altri andando ai servizi sociali del Comune. Fu lì che il vicesindaco del paese chiese l’aiuto di tutti nel diffondere e gestire le informazioni e fu lì che mi dissi: “posso provare a parlarne con Gianluca (mio marito)”. Nel pomeriggio si è incontrato con il vicesindaco e alle 22 era già online il sito terremotosanfelice.org.

Ma dopo il primo trauma? Come hai vissuto il lento trascorrere delle attività, passata l’emergenza?

I primi tempi sono stati adrenalinici anche per via del mio lavoro, anche se ho fatto davvero di tutto. E’ stato davvero stancante: abbiamo lavorato molto più di prima e senza risorse aggiuntive, ma tutto era facile perché si doveva fare. C’era bisogno. Al Centro di Salute Mentale di Mirandola, dove lavoro, che si occupa dell’area di 9 comuni, gli utenti e i loro famigliari sono sempre di più. Fortunatamente la rete dei servizi sociali ha fatto grandi cose, in ogni centro di emergenza comunale un team di psicologi fungeva da filtro: 3400 colloqui in 4 mesi e 2089 persone con livelli di paura e ansia, tipiche sintomatologie acute da stress. Solo chi aveva bisogno di supporto psichiatrico arrivava a Mirandola: sono stati eseguiti 320 interventi da parte del Centro di Salute Mentale. Ma probabilmente il peggio, dal punto di vista psicologico, non è durante l’emergenza, quando tutti regalano solidarietà, ma ora cioè quando si cerca di tornare alla vita normale, in cui però il disagio e la visione della distruzione sono molto pesanti, e come per ogni trauma arriva il momento in cui lo si deve elaborare.

Di fronte a chi ha perso il figlio o la casa, mi dico che sono fortunata. Di cosa dovrei lamentarmi? La verità è che dopo mesi di molto lavoro ho realizzato che la mia vita è comunque cambiata. Ho un lavoro, come mio marito, e miei figli stanno bene, ma se vado a fare la spesa nei container attraverso zone distrutte dove prima c’era vita e speranza. Non abbiamo più il nostro paese e tutti si sfogano con tutti. Ad un corso specialistico mi han detto che dovremmo adottarci a vicenda per superare queste difficoltà, ma di fronte a mia figlia adolescente che mi chiede “perché non siamo andati via”, mi interrogo sul restare.

Quello che dici fa riflettere molto: ci sono cose concrete ma molte sono appese nell’aria… Ma cosa dovremmo fare ora?

Mi vengono in mente due cose, forse tre.

1) I fondi per la ricostruzione: qui noi viviamo tutti i giorni senza fermarci ed infatti vediamo che, sempre con fatica, i negozi riaprono ma stiamo facendo tutto con le nostre forze! Sembra che arrivino i fondi per la ricostruzione ma di fatto, per i finanziamenti per le case, non ho notizia di nessuno che abbia ricevuto nulla. Anzi! Finora chi deve avere aiuti si è arrangiato.

2) La comunicazione: chi aveva il negozio è rientrato ma chi era in affitto si sta trasferendo nel centro commerciale creato con i prefabbricati. Ma devono ancora entrare. Quelli del centro si lamentano perché c’è un nuovo centro commerciale, mentre quelli che devono andarci non ci sono ancora entrati. E poi, per quanto tempo rimarrà? Le voci che circolano tra le persone a volte abbattono la voglia di ripartire: per esempio ora si dice che alcune scuole in verità potevano essere recuperate ma nel frattempo sono stati costruiti altri edifici: a chi credere? La situazione può diventare paradossale dove ogni cosa che viene fatta, viene messa in dubbio. Vorrei più progettazione condivisa anche se, devo ammetterlo, ci sono un sacco di riunioni: ma la gente è sospettosa!

3) Le nuove generazioni: dobbiamo pensare ai ragazzi! Non penso solo al lavoro ma ai servizi, al centro storico dove potevano incontrarsi e stare assieme, ai centri sportivi: vorrei fare qualcosa perché si creino spazi, anche temporanei, per i nostri figli.

Alla fine ho solo un pensiero che riassume i 3 punti: vorrei poter vedere i miei figli avere opportunità d’incontro in luoghi creati per loro, anche a San Felice.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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