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Paralimpiadi, quel dottor Guttmann che conta più di de Coubertin

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Pierre de Coubertin lo conosciamo tutti. La sua creatura, i Giochi Olimpici Moderni, pure e magari, nel riconoscerla come il più grande evento sportivo del mondo, ne sottovalutiamo il valore anche e soprattutto politico: basti dire che a Rio hanno sfilato 206 Paesi e un ulteriore delegazione era composta da atleti rifugiati, ovvero da persone che non hanno uno status preciso se non quello che gli è stato riconosciuto appunto dal Cio. Ma c’e’un’altra persona, sicuramente medico, magari non consapevole di essere un moderno dirigente sportivo, che merita un posto tra i Grandi del ventesimo secolo e che è giusto ricordare adesso che a Rio sono cominciate le Paralimpiadi. Il nome di Ludwig Guttmann non dirà granché a tanta gente, ma la sua storia è forse più importante addirittura di quella di de Coubertin, di sicuro è complementare e, oggi, in grado di dare nuove ragioni e nuovi indirizzi a tutto lo sport.

NEUROLOGO TEDESCO

Ludwig Guttmann era un neurologo tedesco. Come lascia intendere il cognome, di origini ebree, la famiglia era ebrea ortodossa per la precisione, e questo comportò il fatto che dovette lasciare il suo Paese prima che le leggi razziali colpissero lui e i parenti. Trovò un lavoro a Stoke Mandeville, in Inghilterra, come responsabile del centro nazionale di ricerca sulle lesioni del midollo spinale. E in quella struttura, curiosamente affacciata su un campo sportivo, trascorse gli anni della Guerra e, soprattutto, inteso ai fini di quanto stiamo raccontando, del dopoguerra.

Guttmann fu il primo a intuire che la migliore delle terapie per i malati gravi di Stoke Mandeville era lasciare il reparto per il campo sportivo

Nel nosocomio arrivavano i reduci, e già erano tempi di grandi ristrettezze, basti dire che per le Olimpiadi di Londra del 1948 si decise in Inghilterra che solo gli ateti avevano diritto a ricevere più di un pasto al giorno.

In breve, parliamo di gente, tante volte persino ragazzi, che tornava dal fronte menomata, amputata. E arrivavano questi reduci, condannati dalla medicina dell’epoca, e appunto dalla scarsità di risorse, che obbligava a curare le persone con maggior possibilità di cavarsela, senza avere una grande aspettativa di vita. Quasi trascurati nei giri quotidiani tra i reparti dei medici, questi malati nemmeno riuscivano a trovare facilmente speranze a cui appoggiarsi. Guttman, neurologo come detto, ben consapevole che quella gente aveva perso uno o più arti al fronte, in sostanza per garantire quella stessa libertà che lo aveva messo in fuga dalla Germania, fu il primo a intuire che la migliore delle terapie per i malati gravi di Stoke Mandeville era lasciare il reparto per il campo sportivo.

Gareggiando per come potevano, quei soldati, e ovviamente pure gli altri degenti, lavoravano sull’amor proprio, ed esistere era già una forma di resistenza, un modo di garantirsi il diritto a essere considerati come gli altri. Non dei pazienti allo stadio terminale, persone: vive, vive in modo imprevisto, ma vive.

GUTTMANN E I PRIMI GIOCHI

Ludwig Guttmann nel 1948 organizzò la prima edizione dei Giochi di Stoke Mandeville, e proprio per questo, 64 anni dopo, una delle mascotte della Golden Summer di Londra nel 2012 si chiamava Mandeville. Lo sport come terapia, sanitaria e sociale: a pensarci è una rivoluzione davvero più significativa di quella introdotta da de Coubertin. Lo si capisce oggi che atleti di tutto il mondo sono impegnati alle Paralimpiadi (attenzione: Paralimpiadi, non Paraolimpiadi. E’ un evento con sua dignità, non un evento che scimmiotta quello più famoso). Sono in gara non per farci superare, a noi tutti, l’idea che non devono esistere barriere architettoniche, al contrario sono impegnati per garantire a ciascuno che non ci siano e non ci debbano proprio essere barriere di alcun tipo, che il mondo può e deve essere inclusivo come quel campo sportivo vicino a Londra, dove tutti hanno gli stessi diritti e dunque anche gli stessi doveri.

FESTA DELLA SOCIETA’

Le Paralimpiadi non celebrano la società dei migliori, una delle possibilità che si prendono le Olimpiadi. Sono la festa della società che siamo tutti e ovunque, specie noi del mondo occidentale che continuiamo ad invecchiare e dunque siamo costretti a scoprire, anche impreparati, gli effetti quotidiani della disabilità; specie noi italiani che viviamo in centri storici costruiti quando ancora non c’era un Ludwig Guttmann pronto a farci notare che aggiungere uno scalino può voler dire perdere una persona, condannarla senza avere il diritto di pronunciare una sentenza del genere.

106 ATLETI

A Rio ci sono Alex Zanardi, Bebe Vio, Giusy Versace, Martina Caironi, Francesca Porcellato, 106 atleti italiani che in qualche caso, proprio a dimostrazione di quanto i luoghi comuni siano potenti, e difficili da superare, nemmeno riusciamo a riconoscere come disabili, proprio per quanto loro sono solari nell’avere affrontato, e risolto, un problema. C’è Monica Contrafatto che le Paralimpiadi le ha conosciute solo 4 anni fa: lei, soldato, era ricoverata in Afghanistan, perché aveva perso una gamba per un attentato. A Rio insomma c’è l’Italia che siamo, e quella che possiamo essere se tutti ci concentriamo un poco anche sulle parole parlando di una categoria, i disabili, capendo però che il gruppo è costituito da persone con disabilità. Persone, non malati, in ogni caso gente che deve essere grata al dottor Guttmann che ci ha insegnato a essere migliori semplicemente per riconoscenza.

LUCA CORSOLINI

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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