Quando la sera del 13 novembre 2015, Parigi ha cominciato a tremare per gli attacchi terroristici, sono successe essenzialmente tre cose.Primo: è cominciato a circolare il panico prima fra gli abitanti del quartiere del 10 e 11 arrondissement e poi nel resto della città, complice anche le scarse notizie a disposizione della stampa.Secondo: la polizia ha attivato i sistemi di sicurezza per cercare di contrastare l’attacco.Terzo: i social media si sono organizzati – più correttamente si potrebbe dire auto-organizzati – per intervenire in diversi aspetti come il soccorso alle persone e la diffusione delle notizie.
Noi tendiamo a pensare i social media come degli spazi destinati ad un brusio indistinto, quello che il marketing chiama buzz, ad una forma di chiacchiericcio che solo in alcuni casi vale la pena di ascoltare come quando vengono diffuse in rete informazioni che danno colore alla nostra vita quotidiana.
Ma questo è solo un aspetto superficiale della questione. I social media sono spazi digitali in cui le persone chiacchierano, scherzano, litigano, condividono esperienze: in una parola vivono. Pertanto non è un caso se quando succedono degli eventi gravi come quelli successi a Parigi la notte scorsa, i social media mostrano tutta la loro forza focalizzandosi sull’intervento che possono dare durante queste tragedie.Non è solo intelligenza collettiva, è umanità collettiva.
Se osserviamo cosa è accaduto nel modo con cui i social sono diventati parte della narrazione collettiva degli eventi di Parigi, possiamo trovare anche uno schema sociologico piuttosto interessante che ha seguito e potenziato lo svolgersi degli eventi.
La prima cosa che salta all’occhio sono stati gli hashtag di Twitter utilizzati per accompagnare l’organizzazione delle informazioni.
Come è facile immaginare i primi hashtag sono stati di aiuto e sostegno ai cittadini francesi colti dal panico.L’hashtag #porteouverte è stato il primo ad apparire sui tweet di lingua francese. Lo scopo è stato quello di aiutare le persone che stavano scappando dagli attacchi offrendo loro un rifugio (la traduzione è “porte aperte”). La struttura dei tweet “porte aperte” è piuttosto riconoscibile: si aprono con l’hashtag e poi danno informazioni indicando la via e l’indirizzo dove le persone possono trovare rifugio.È come se Twitter diventasse un filo di Arianna per cercare di uscire dal labirinto di paura e disordine che hanno colpito i quartieri sotto attacco, e non solo. Ovviamente molti hanno usato questo hashtag per esprimere le proprie emozioni e non solo per dare informazioni, ma è ovvio: tutti noi abbiamo bisogno di scaricare la tensione condividendo con gli altri le nostre paure.
ParisAttacks: dalla testimonianza all’aiuto concreto
L’uso emotivo di #porteouverte è durato poco perché rapidamente sono cominciati ad apparire altri hashtag che avevano ruoli diversi e schemi diversi, ma tutti avevano una funzione precisa: condividere. Informazioni, emozioni, notizie, ma comunque condividere.Uno dei primi ad apparire è stato #ParisAttacks. Non è la prima volta che questo hashtag viene usato. La sua prima comparsa è avvenuta lo scorso 5 novembre, usato da un account Twitter che l’ha usato per raccontare gli sviluppi della vicenda di cronaca che ha visto un marine americano sventare un attacco terroristico in un treno lo scorso agosto. L’uso che è stato fatto dell’hashtag in connessione ai fatti dello scorso venerdì è stato duplice. Da un lato quello di contribuire a diffondere le notizie che via via stavano accumulandosi sugli eventi, riuscendo così a dare un quadro della situazione, spesso mescolando narrazione mediale con quella personale dei testimoni. L’utilizzo dell’inglese per un evento francese è legato alla necessità di dare ai tweet così strutturati la massima circolazione possibile. Un altro uso è stato quello di condividere supporto e sostegno morale alle persone coinvolte in questi attacchi brutali.
Questa funzione particolare è stata ereditata da un altro hashtag più fortemente connotato in senso emotivo e relazionale: #PrayforParis. Anche questo hashtag, usato per la prima volta per motivi diversi, nelle ore successive all’attacco diventa uno degli hashtag più utilizzati per condividere a livello globale dolore e sostegno morale assieme ad un altro hashtag #Pray4Paris, apparso per la prima volta per condividere le emozioni collettive legate agli eventi terroristici dello scorso venerdì.Col passare delle ore, la comunicazione sui social è andata progressivamente strutturandosi facendo nascere degli account funzionali, cosi come era successo ai blog all’indomani del famoso Tsunami che colpì il Sud-est asiatico nel dicembre del 2004.Gli account Recherche Personne (ricerca delle persone) nato la notte di sabato 13 e Recherche Paris (ricerca Parigi) sono stati creati proprio con lo scopo di dare una mano per ritrovare le persone di cui si sono persi i contatti nel caos che si è creato successivo agli attacchi. Per ottimizzare e migliorare la circolazione delle informazioni vengono date anche le caratteristiche che deve avere il tweet per poter essere diffuso.
Non solo Twitter: arriva Zuckerberg col safety check di Facebook
Ovviamente anche i grandi player del mondo social non potevano restare a guardare man mano che gli eventi prendevano corpo. Uno su tutti: Facebook.Il colosso di Mark Zuckerberg ha attivato una serie di strategie per essere di sostegno agli eventi accaduti a Parigi. La prima cosa è stata il safety check, funzione sviluppata per la ricerca delle persone durante disastri naturali, che serve per dire alla propria rete di contatti che si sta bene e che è tutto a posto, un modo immediato per tranquillizzare le persone lontane. L’uso di questa funzione ha sollevato alcune polemiche, poiché è stato fatto notare che durante gli attacchi terroristici che hanno interessato il Libano nei giorni scorsi, Facebook non ha attivato alcun safety check. Cosa che ha portato alla rapida risposta dello stesso Zuckerberg che ha sottolineato che fino ad oggi questa funzione era dedicata esclusivamente ai casi di terremoto e che è stato deciso che è necessario che venga attivata per ulteriori disastri umanitari, non solo naturali.
Per venire incontro alle esigenze di sostegno morale ai cittadini di Parigi e alla Francia, Facebook ha reso possibile sovrapporre alla propria foto profilo, la bandiera francese, una funzione che si attiva direttamente dalla pagina di Mark Zuckerberg. Questa app è stata usata con successo in occasione della celebrazione dell’uguaglianza dei diritti delle coppie omosessuali lo scorso giugno. Anche in questo caso l’azione non è esente da critiche, perché così come c’è il fondato sospetto che la app Celebrate Pride sia stato un enorme esperimento di monitoraggio della comunità LGBT, anche in questo caso potrebbe essere un enorme esperimento sociale le cui conseguenze politiche potrebbero essere molto problematiche, soprattutto nell’analisi e nell’interpretazione dei risultati. Oltre al fatto che alcuni ritengono che il sostegno alla Francia fatto in questo modo sia semplicemente slacktivism, ovvero un attivismo buono per i social media che non ha un vero effetto politico.
Dall’intelligenza collettiva all’umanità connettiva
Anche in questo caso i social media hanno mostrato una cosa molto interessante. Essendo diventati parte integrante della vita quotidiana delle persone, ne hanno assorbito le stesse caratteristiche. Da un lato un mezzo per diffondere le proprie opinioni nella forma di contenuti digitali – ora messaggi, ora foto, ora, video – dall’altro uno strumento per esprimere e condividere le emozioni nel momento in cui gli eventi ci spingono a farlo.Molti studiosi ritengono che una delle proprietà più interessanti dei social media sia quello di potenziare la capacità di risolvere problemi agendo come un gruppo coordinato, ovvero l’intelligenza collettiva. Possiamo dire che in alcuni casi sono importanti strumenti per rinforzare anche la nostra solidarietà come esseri umani: l’umanità collettiva.
DAVIDE BENNATO
Catania 15 Novembre 2015