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Per sopravvivere alle fabbriche della mente ripartiamo dalla scuola

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È cominciato tutto così, con un post su Facebook: “Terza rivoluzione industriale? Sì, nel senso che ci stiamo cacciando di nuovo dentro una fabbrica. Solo che questa volta non col corpo, ma con la mente.” Always on, Always working. Ci stiamo spostando verso una dimensione di lavoro continuo. Sempre. La vita diventa un lavoro. Nell’economia cognitiva si entra in una condizione di lavoro intellettuale che diventa permanente. Non esistono momenti off. Anche i momenti off diventano opportunità di creare, non per spegnere. Anche lo spegnere è codificato: gli incontri, i social media, le foto… Cultura del caffè lungo. Le maratone di challenge in 24 ore. Hackathon. E poi cultura della perdita del sonno. Non dormo mai, creo sempre. E così via. Ma dormire serve.

Lo sanno bene i neuroscienziati. Il sonno ricarica e, ben più importante, permette di sognare.

I nuovi zombie del Ventunesimo secolo

Se nella seconda rivoluzione industriale ad essere sotto stress era il corpo, adesso lo è la mente. È lì che avviene lo scontro-incontro. E di conseguenza la fabbrica si sposta: non servono più fabbriche fisiche per contenere e codificare corpi, ci servono fabbriche cognitive per contenere e codificare menti. Nella cultura pop lo zombie è un mostro del ventesimo secolo, correlato con i fenomeni di massa: produzione di massa, consumo di massa, morte di massa. Non è un aristocratico come Dracula, né una superstar dei freak, come Frankenstein. È il mostro del quotidiano, della vita di tutti i giorni. Com’è fatto lo zombie del ventunesimo secolo? Sia lo zombie che il lavoro immateriale celebrano la logica della colonializzazione della mente e del sistema nervoso centrale.

I morti viventi camminano per il mondo e hanno una relazione genetica con la irrequietezza. Sono “puro istinto motorio”, come li descrive Romero nella sua “Notte dei Morti Viventi”. Invece ne “L’Invasione degli Ultracorpi” (the Invasion of the Body Snatchers) di Philip Kaufman nel 1978 una pianta spaziale che duplica le persone estende le sue fibre attraverso il pianeta, come se fosse il World Wide Web. Gli Ultracorpi occupano le reti di telecomunicazioni e avviano una operazione planetaria di circolazione dei corpi, nella trasformazione dall’era industriale a quella del lavoro immateriale, in cui la produzione si eclissa e viene sostituita da un regime di mediazione e riproduzione. Un Ultracorpo nel film dice al protagonista Donald Sutherland di non aver paura dei “nuovi concetti”: gli imperativi del socializzarsi e del reinventarsi, assieme alle visioni di auto-cannibalismo (self-management, auto-valutazione, auto-regolazione, auto-consumo).

L’arte e la creatività diventano una norma. Nella “experience economy” il potere normativo dell’arte e della creatività consistono nel mercificare l’idea mitologica della diversità dell’arte, del suo essere Altro, portando alla riproduzione della soggettività.

La coscienza come prodotto sociale

Il libro “The Experience Economy: Work is Theatre and Every Business is a Stage”, scritto dai guru del management James H. Gilmore and B. Joseph Pine II, sostiene proprio questa evoluzione dell’arte e della creatività e dei loro poteri normativi: l’experience è la nuova sorgente di profitto, e l’oggetto della produzione è l’esperienza (e, quindi, la performance) del pubblico. La premessa di questo approccio è psicologica: l’abilità di alterare la percezione della realtà per i consumatori è un tema centrale. Nel suo “Industrialization of the Mind” del 1962 Hans Magnus Enzensberger esplorava la condizione dell’essere umano con il sorgere dell’industria culturale, cognitiva, creativa. Lo faceva partendo dalla coscienza e dalla consapevolezza. “Nessuna altra illusione è stata mai difesa altrettanto: la sovranità della mente. L’idea che le persone possano “decidere” (“make up their minds”, in nglese, ancora più forte), individualmente, è un sottoprodotto della filosofia borghese: un Descartes di seconda mano, un Husserl rovinato, un idealismo da poltrona. È una sorta di do-it-yourself metafisico”. Per dirlo con Marx: quel che si muove nel nostro cervello è un prodotto della società. L’industrializzazione della mente (e nella mente) è un processo degli ultimi cento anni. E non può essere spiegato semplicemente attraverso l’analisi delle sue tecnologie. Il termine, vago e poco preciso, dell’industria culturale incarna un paradosso. La coscienza può essere indotta e riprodotta industrialmente, ma non può essere prodotta. È un prodotto sociale: la sua natura è nel dialogo. Nessun processo industriale può sostituire le persone che lo generano. L’industria della mente non produce nulla, se non le dinamiche di infiltrazione e trasmissione necessarie alla formazione della percezione del possibile, desiderabile, preferibile: nella formazione della percezione di futuro. È una forma di potere, ma è anche il suo punto più vulnerabile: trae beneficio da quello che non può produrre da sé, la produttività creativa delle persone. Come ricordava Enzensberger, l’industrializzazione della mente comincia dall’istruzione. Mentre ci occupiamo delle controversie su curriculum scolastici, sistemi educativi e riforme universitarie, i sistemi tecnologici che renderanno tutte queste nozioni superate ed irrilevanti sono in fase di perfezionamento. Il sistema educativo come mass-media, il più potente di tutti, è un affare da miliardi di dollari. La possibilità di controllare quello che ciascuno di noi accetta o rifiuta, quello che percepiamo come presente e futuro, è argomento politico primario. Lo sfruttamento materiale deve camuffarsi per sopravvivere, e lo sfruttamento immateriale è diventato un suo corollario necessario. Quello che viene abolito oggi non è lo sfruttamento, ma la nostra consapevolezza. Per sfruttare le facoltà politiche, morali e intellettuali delle persone, devi prima svilupparle.

I prosumer nell’era del remix

Lo spostamento dell’attenzione va dai consumatori ai produttori. I prosumers, prima, i makers, ora. Non c’è dubbio, dal punto di vista del potere, su chi manda avanti gli affari. Di certo non sono gli intellettuali (i designer, i coder, i creativi, gli ingegneri, gli artisti, gli scrittori…) a controllare l’industrial complex. Nonostante ciò, nel presente vale una certa condizione di ambiguità, visto che nell’industria della (nella) mente non può esserci controllo se non attraverso la possibilità di accaparrarsi i servizi dei pochi che, effettivamente, possono creare qualcosa. La maggior parte dei prodotti creativi è di tipo derivato. Che stiamo parlando di musica, interfacce, app, hardware, software, moda o altro, ci sono pochi traini e ancor meno innovazioni abilitanti: il resto si deriva, remixa, ricombina. Sul lungo termine, però, questo non è sufficiente ad alimentare l’industria. Da questo deriva la necessità di “fare cose nuove”, e la conseguente dipendenza da quelle persone che possono innovare radicalmente. In altre parole, dipendere dai potenziali istigatori, troublemaker. Servono capacità e tecniche sofisticate per avere a che fare con gli istigatori, per neutralizzare (o, più comunemente, assimilare) la loro influenza sovversiva: dalle più rozze, quali la minaccia fisica, l’inserimento in “liste nere”, la pressione morale ed economica; alle più sofisticate, quali la sovraesposizione, la co-optazione, lo sfornare di super-eroi e star. Tutte soluzioni tattiche e di brevissimo termine per risolvere questo paradosso: gestire le persone capaci di introdurre alternative. A meno di poter gestire i produttori, non si potranno gestire i consumatori (ora nella forma di prosumer, o maker, o in qualsiasi forma di consumo performativo, da Facebook ai Makers, consumatori/produttori che consumano esprimendo sé stessi, producendo).

Sempre da Enzensberger: “Il rapido sviluppo dell’industria della (nella) mente, la sua salita ad una posizione chiave nella società moderna, ha profondamente cambiato il ruolo degli intellettuali. Che si trovano a confrontarsi con nuove minacce e nuove opportunità. Che se ne accorgano o meno, che gli piaccia o meno, sono diventati complici di un complesso industriale enorme, che dipende da loro per la propria sopravvivenza, proprio come loro dipendono dalla sua per la loro. Devono provare, ad ogni costo, ad usarlo per i propri scopi, che sono incompatibili con quelli della Mind Machine. Quello che sostengono, devono sovvertirlo. Possono giocare pulito o sporco, possono vincere o perdere; ma devono ricordare che c’è in gioco il loro futuro”. E, quindi, possiamo tornare all’inizio, alla fabbrica della/nella mente, al nostro zombie contemporaneo, al creativo. Industrializzato, si trova immerso in una catena di montaggio cognitiva, in cui ogni elemento è dedicato al suo auto-cannibalismo, tramite la creatività: all’innovazione continua, alla ricerca dell’idea per la startup miliardaria. Si tratta, ovviamente, del potere di controllare non il futuro, ma la percezione del futuro (che implica, ovviamente, il controllo del presente): di cosa è possibile, desiderabile, preferibile. Si tratta di istruzione, coscienza, consapevolezza, e di performance. Si tratta di capire da dove vengono le nostre percezioni, da quali infiltrazioni nel gioco sociale del dialogo.

Innovazione a brevissimo termine

In ballo ci sono cose fondamentali, dalle più positive alle più negative. Per esempio l’enorme focus sulla ricerca dell’innovazione da efficienza, meno sulle innovazioni abilitanti: hanno tempi diversi, e modi diversi. Quelle abilitanti hanno bisogno di tempi più lunghi, modi più liberi e processi di tipo differente, che fanno a pugni con i modi e i tempi dell’industria cognitiva, polverizzata, di corsa. Anche la ricerca di innovazioni abilitanti è ricondotta all’ordine da una visione singolare di futuro. Dalla singolarità, vien voglia di dire. Intelligenze artificiali, robot, nanotecnologie, biotecnologie, colonizzazione dello spazio. Non c’è critica in questo. C’è consumo, status quo. Decretato da utopie tecno-deterministiche positivistiche. O ancora il focus fortissimo sul problem solving, meno sulle possibilità offerte dalle visioni olistiche, ecosistemiche. Non si guardano reali alternative, o alla evoluzione delle filosofie, ma alle possibilità di mantenere lo stato attuale, di renderlo più efficiente, di mantenere il consumismo e il lifestyle attuale, rendendolo sempre più comodo e coloniale. Si preferisce pensare a come sfruttare (colonialmente) altri pianeti, piuttosto che a come vivere nel nostro, ad esempio; a come costruire un nano-robot che curi il cancro, piuttosto che a come mangiare meglio; e così via. Anche qui: modi e tempi incompatibili. Ne conseguono strategie a brevissimo termine. Ne consegue incertezza nelle visioni sul futuro, da un punto di vista delle certezze “sociali”, degli inconsci collettivi, che cosí possono divenire semplice oggetto di influenza da parte di soggetti potenti. Chi ha detto che la Smart City deve essere cosí e cosà? Chi dice che il lavoro deve essere in un certo modo? È interessantissimo, come sempre, “seguire i soldi”. Chi beneficia maggiormente dal fatto che il futuro sia una smart city così e cosà, o dal futuro coi makers, o con gli smartwatch che mi controllano il battito cardiaco. Scompare progressivamente la visione olistica e a lungo termine. E una visione plurale del futuro (i futuri).

I tempi (diversi) delle innovazioni abilitanti

Direttamente collegata a questo: la perdita della storia. Ci si fonda sul presente continuo. Si comincia sempre più da zero. Cambiamo tutto. Sì, ma beneficiando della storia. Tutto questo si inquadra in un discorso di percezione, e quindi di estetica. Il “bello”, è un affare complicato. Proprio come il “futuro”. Avere il potere di decidere (o anche solo di suggerire) cosa è “bello” e cosa è “futuro” è un grande potere. Viviamo in un momento in cui i poteri sono rappresentati da coloro che hanno imparato a utilizzare questa possibilità a piene mani. Facendolo creano un imbuto, in cui “bello” e “futuro” perdono possibilità e modalità, diventando mono, sempre di più, progressivamente. Questa condizione/progressione viene invertita di senso da poche cose. Tra di esse le innovazioni abilitanti e l’arte (non la creatività). Ripristinare percezioni di “possibilità”; “belli” differenti, altri, possibili, dissonanti; “futuri” plurali, emergenti, performabili attraverso la costruzione di dialoghi. Questo fanno l’arte e le innovazioni abilitanti. Ma hanno tempi e modi differenti da quello del lavoro, della creatività, della competizione, della “moneta” attuale. Quando in gioco entrano piattaforme (mentali o software fa poca differenza) che trattano di identità (e quindi di rappresentazione, in un contesto sociale), non di contenuti, il gioco cambia. Il network non basta più, come non bastano gli strumenti open source, gli open data, le stampanti 3D, eccetera. Perché chi controlla la piattaforma, controlla anche il framework usato per definirsi. Che sia Telecom, Facebook o la società energia X, fa poca differenza. Anche la Società Energia X tende a diventare una piattaforma per le identità. È la transizione dalle società energetiche che estraggono, raffinano e distribuiscono, a quelle che sostanzialmente gestiscono le informazioni per le persone che l’energia se la producono da sé. Ad un convegno dicevano: “se non ti piace Facebook escine, no?” E, ovviamente, non è così semplice. Non si “esce” semplicemente da un sistema di identità.

Ripartire dalla scuola, grande opportunità

Come si fa? Non è semplice, ovviamente. E non è tecnologico. E non è singolare. Si comincia dalla scuola, con tutta probabilità. Ripristinando nella scuola una visione critica del mondo, ed ecosistemica. Costruendo sistemi di coesistenze, non di consensi. Di diversità e di conflitti civili, non di visioni tecno-utopiche di futuro. In questo il ruolo di governi, organizzazioni ed aziende può e deve cambiare. Non più evangelizzatori di visioni, ma abilitatori di ecosistemi. Questa è la grande opportunità.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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