Per una via italiana alla social innovation

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Il 20 maggio si è conclusa a Bruxelles la Eusocial competition con la premiazione di tre bellissimi progetti, ma per dare continuità a questa entusiasmante esperienza lunedi e martedi i 25 semifinalisti si sono ritrovati a Londra, a Nesta UK per la precisione, per una ulteriore iniziativa della Social Innovation Academy.

Il programma ha sfoderato una miscela di diverse attività come inspiring talks, face-to-face working sessions con esperti, workshop peer-to-peer.

Tra 25 semifinalisti ricordiamo, ben 7 sono gli italiani, tra cui uno dei tre vincitori “From waste to wow”.

I progetti con cui abbiamo partecipato si chiamano Epelia.com che vuole lanciare una rete di distribuzione alimentare paneuropea collegando produttori ai consumatori direttamente con un portale web e a basso costo, e Wastefablab che propone un modello di social franchising enabler legato alla produzione di nuova materia e nuovi prodotti, attraverso un’attività di hackeraggio e opendata rifiuti.

Oltre a questi, tra i progetti italiani presentati interessante anche “alla giornata”, un portale per facilitare l’uso dei voucher da parte dei lavoratori del sistema agricoltura, storicamente afflitti dal lavoro nero.

Mentre la prima sessione della Social Innovation Academy è stata a Bilbao, la cerimonia si è svolta in una fichissima location di Bruxelles dove abbiamo incontrato investitori e istituzioni. Arrivare in finale e perdere è stata una esperienza positiva. E vi spieghiamo perché.

Tra le lezioni imparate sicuramente per prima c’è quella che nei contesti internazionali in particolare, il networking è un sottoprodotto sempre di grande e tangibile valore; la seconda è che il successo fa leva sulla concretezza (hanno vinto progetti che hanno evidenziato prodotti, spazi, terra); e terza che è quella che ci preme di più, è che la social innovation italiana ha dei suoi tratti peculiari che andrebbero riconosciuti e raccontati in una sorta di via italiana alla social innovation.

Perche? Per una serie di considerazioni che riportiamo per punti:

  • Le politiche comunitarie in materia di innovazione sociale sono state fortemente determinate dalla tradizione anglosassone (Nesta, SiX, ecc.): le persone, le organizzazioni e le reti che hanno ispirato e dato forma ai documenti programmatici europei fanno emergere uno sbilanciamento verso i paesi del Nord Europa;
  • La Commissione Europea riconosce che i problemi dell’innovazione sociale sono: la frammentazione, la scarsa visibilità;
  • Il premio europeo dell’Innovazione Sociale ha permesso di far emergere e mappare proposte e iniziative diffuse su tutto il continente, con una forte rappresentazione dell’Italia;
  • Esiste un’innovazione sociale inconsapevole, fatta per necessità, non sistematizzata, che affonda le proprie radici in un fare mediterraneo pratico, composta da iniziative che spontaneamente attivano il loro capitale relazionale per fornire risposte diverse a bisogni e problemi del territorio, moltiplicandone l’impatto attraverso l’utilizzo dei social network e della cassa di risonanza di Internet;
  • Esiste un’innovazione sociale che non segue la “spirale anglosassone” e che puo mettere in luce altri aspetti caratterizzanti, come la modalità di diffusione, il ruolo dell’emotività, il profilo delle persone.

Serve una via italiana alla social innovation? Parliamone. Certamente alcuni tratti specifici ci sono, ad esempio:

  • i nostri modelli di governance sono verticali e multilivello, serve lavorare di piu per avere una maggiore sussidiarietà orizzontale
  • social o civic innovation sono qui piu che in altri paesi, una leva per rafforzare il sistema imprese e i processi di open innovation (il nostro sistema è lontano dai bisogni e povero di investimenti in ricerca, di partenariati pubblico privato di qualità)
  • la autoimprenditorialità diffusa è emergente ma ancora deve differenziarsi dall’associazionismo e dal “doppio lavoro” (lavoro di mattina e mi impegno nel pomeriggio o la sera).

La social innovation si basa su organizzazioni che la letteratura definisce a clan, con regole anche informali ma fortemente condivise. La social innovation infatti impiega forze di lavoro intellettuale altamente “specifiche” per la loro azione, le cui mansioni sono difficilmente strutturabili secondo i principi dell’organizzazione tayloristica e non governabili con regole di tipo burocratico. In queste situazioni il clan si presenta come una forma organizzativa naturale perché costituita sui presupposti della lealtà e della fiducia personali. Il clan è un gruppo coeso e fortemente motivato. Le strutture organizzative di tipo clanistico e i sistemi di controllo implicito delle prestazioni lavorative sono particolarmente adatti alle imprese a tecnologia avanzata, ove è richiesto un impegno collettivo di lavoro (teamwork); ove la produzione di innovazione implica l’esistenza di una non banale capacità di risposta alle pressioni competitive; dove i risultati dei gruppi di lavoro sono valutabili economicamente in un periodo non breve.La nostra domanda è: se la social innovation crea contesti organizzativi a clan in un paese fortemente burocratico è un rischio o una opportunità? Come gestire la evidente conflittualità che già in alcuni casi è emersa? O non siamo di fronte ad un cambiamento paradigmatico del modello economico e di sviluppo.Infine ci siamo poste delle domande sulla responsabilità di questi processi. Da un lato la responsabilità di chi li attiva. Dall’altro la responsabilità di chi ne valuta i risultati.

L’accountability della social innovation non può seguire il modello di accountability che sinora è stato usato per filiere di governance tradizionale perché quelle tradizionali, come quella del welfare, sono di natura gerarchica. Se la responsabilità è diffusa e orizzontale, anche il sistema di controllo sarà di conseguenza da rivedere. Noi siamo pronti a sperimentare e a generare prototipi di una nuova accountability, civica, allargata, multistakeholder.28 giugno 2014Alessandra Vaccari e Ilaria D’Auria

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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