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Perché artigiani e maker fanno fatica a parlarsi (e che fare a riguardo)

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Dopo il successo straordinario della Maker Faire di Roma sono in molti a chiedersi come trasferire tanto entusiasmo e tanta energia in un’economia, quella italiana, che stenta a trovare la via per uscire dalla crisi. Gli artigiani digitali e gli inventori fai-da-te che sono arrivati a Roma hanno dato prova di vitalità e creatività.

Come contaminare con questo stesso entusiasmo tante piccole imprese e tanti artigiani che oggi fanno fatica a trovare la via del rilancio? La risposta non è scontata. Giorgio Soffiato, imprenditore under trenta con la passione per i social media in versione PMI, ha fatto alcune considerazioni interessanti sul suo blog: “I maker stanno compiendo un percorso che porta degli abili storyteller a scoprire il mondo del prodotto, con il quale grazie alla passione per il fare si trovano a meraviglia.

Gli artigiani invece non stanno compiendo il percorso inverso, o meglio lo stanno facendo in maniera totalmente estemporanea e depotenziata.” La differenza tra i percorsi non è solo, a mio avviso, una questione di età media dei protagonisti (giovani i primi, più in là con l’età i secondi) o di sguardo rivolto al futuro. Certo, questi sono fattori che contano. Credo che le differenze fra maker e artigiani (o meglio fra artigiano d’antan e artigiano futuro) siano più profonde. Metterle a fuoco aiuta anche a capire quel che si può fare per accelerare un cambiamento che costituisce una priorità per l’economia del nostro paese.

Suggerisco tre punti su cui concentrare l’attenzione. Il primo ha a che fare con la fine della cultura del segreto.

I nostri artigiani d’antan hanno custodito gelosamente il proprio saper fare. Hanno fatto del segreto una vera e propria bandiera. Non senza ragione, in alcuni casi. Oggi la situazione è cambiata. E il problema non è tanto la concorrenza, che ovviamente si attrezza per capire cosa c’è dietro a un prodotto e alla sua qualità. Il vero fattore del cambiamento è la domanda, che oggi reclama – a ragione – di sapere che storia c’è dietro un oggetto e un servizio. Oggi, il racconto è parte integrante del valore di un bene. Senza una storia è difficile immaginare di differenziare alcunché. E’ proprio sul fronte del racconto che il maker è decisamente in vantaggio. Il maker un po’ fa, un po’ twitta. Il suo è un fare sociale, non solitario.

Raccontare è nel suo DNA. Su questo fronte l’artigiano d’antan ha bisogno di qualcosa di più di una spintina.

Il secondo punto ha a che fare con la necessità di una nuova cultura dell’internazionalizzazione. L’artigiano d’antan è profondamente radicato nella cultura locale. E questo è un bene. Ma oggi bisogna aprirsi alla globalizzazione, ai mercati che crescono, ai nuovi designer che girano per il mondo, alle nuove opportunità della ricerca. In questi anni, in molti hanno intrapreso un percorso di internazionalizzazione: hanno preso la loro valigia e sono andati a nuove fiere, in paesi a lungo poco battuti, scoprendo una geografia del mondo tutta nuova. Il tema però non è semplicemente quello della vendita all’estero. Lo straniero, è bene ripeterlo allo sfinimento, non è semplicemente un consumatore cui rifilare il prodotto made in Italy. E’ una persona che pensa, che ha idee, che spesso ha sensibilità e gusto. Aprirsi all’internazionalizzazione significa accettare la sfida di un dialogo con il mondo (senza perdere la propria anima). Su questo terreno l’esperienza Banzi/Arduino docet.

Il terzo punto riguarda una nuova idea di gioco e di sperimentazione. I maker avvicinano la complessità del mondo materiale con uno sguardo pieno di curiosità e di entusiasmo. Chi è andato a Roma in questi giorni lo ha visto in tutti gli stand. I maker, anche i più giovani, non hanno la reverenza dell’apprendista che si accinge a cinque anni di gavetta prima di poter prendere davvero in mano l’iniziativa. L’approccio “play + fun” ha un senso perché oggi le nuove tecnologie, in primis il digital manufacturing, consentono di passare dal livello principiante al livello intermedio in tempi relativamente brevi. E’ un po’ come nello sci. Una volta passavano anni prima che uno imparasse a sciare a sci uniti. Oggi, con gli sci ultimo modello, qualche settimana è sufficiente per fare bella figura. E i più vecchi rosicano, increduli. In realtà, non è poi tutto così facile. Il tempo necessario per passare da un livello intermedio a un livello di eccellenza (livello richiesto per chi vuole fare della propria pratica un mestiere vero e proprio) rimane decisamente lungo. E’ altrettanto vero però che non possiamo più imporre ai giovani una retorica del sangue e del sudore: avvicinare un mestiere deve essere divertente e pure “cool”. La fatica viene dopo.

Come fare per accelerare una transizione culturale quanto mai necessaria? Di solito non è facile affrontare punti così diversi immaginando un unico punto d’attacco. Questa volta penso che una soluzione semplice ci sia: è quella di incentivare in tutti i modi la diffusione della rete – in tutte le sue forme – nel tessuto economico nazionale, in particolare nella piccola e piccolissima impresa. Si tratta di sostenere la banda larga, l’accesso a servizi innovativi, la presenza sui social network e sui portali del commercio elettronico: un incentivo alla pratica delle rete a tutti i livelli è un modo intelligente per far capire i vantaggi della condivisione della conoscenza, per accendere nuove relazioni internazionali, per capire che il proliferare di un gran numero di “dilettanti” non è una minaccia per un lavoro di qualità (anzi, è il contrario). Questa è la direzione da prendere per accelerare la convergenza. Il lavoro artigiano ha un gran bisogno di entrare a testa alta nella rete. Speriamo che qualcuno se ne accorga.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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