Trovarmi nella condizione di difendere l’ormai famosa frase sulla cultura medievale del ministro Franceschini durante l’incontro con Eric Schmidt Google di lunedì scorso, ha quasi del surreale per me. Mi occupo, infatti, di turismo e digitale, ho scritto spesso che la Cultura deve cambiare cultura, sostengo che non si debba demonizzare il mercato ma imparare a starci dentro, che occorra perdere un certo snobismo per affrontare il tema dei modelli di business anche per il nostro patrimonio culturale (il caso della mostra su Pompei record di incassi al British Museum è il più eclatante esempio), e per questo mi sono attirata anche alcune critiche.
Nonostante ciò la comprendo perché – a differenza di molti – ero presente, perché credo debba esserne fatta una lettura contestualizzata, perché ho letto cialtronerie superficiali utili ai like ma non al dibattito e perché mi interessa molto il nodo vero che questa affermazione ha messo in luce: quale modello di sviluppo vogliamo adottare nel nostro Paese?
Ma proseguiamo con ordine.
I temi sono molti, cerco di elencarli in modo schematico.
CONTESTO. L’incontro aveva per tema Cultura e Turismo Digitale (qui il resoconto completo di trascrizione dei dialoghi). Se ci fossero stati streaming e wifi certe incomprensioni non penso sarebbero avvenute. Fin dall’inizio il ministro non si è nascosto, ha ammesso l’enorme gap digitale e la volontà dell’Italia di colmarlo con una serie di azioni messe già in atto (es: tax credit per investimenti sul digitale delle imprese ricettive) o di cui si attendono i frutti (es: istituzione di un laboratorio sul turismo digitale, TDLAB). Ma per più di un’ora Eric Schmidt ha costantemente incalzato su nostra arretratezza e proposto il loro modello vincente come unica alternativa. Alla fine Franceschini, ha avuto uno scatto d’orgoglio e da qui la famosa frase sulle competenze in storia medievale.
Poteva scegliere forse un esempio più felice, il Rinascimento, ma il senso, così come l’ho percepito, era il rifiuto di un’omologazione, la volontà di innovare seguendo la nostra peculiarità.
E’ un principio importante che ovviamente divide ma sul quale io concordo. Anche negli investimenti turistici c’è chi propone di fare nel Sud Italia un unico grande Sharm El Sheikh. Personalmente, nonostante apprezzi molto Farinetti, sono contraria anche a quella proposta di omologazione, peraltro in contraddizione con un suo agire opposto attraverso Eataly, dove il successo è legato indissolubilmente al racconto dell’identità attraverso il cibo.
RUOLI. Schmidt ha fatto bene, ha fatto il suo lavoro: ha esposto alcuni dati oggettivi, che nessuno nega, e ragioni economiche soggettive, l’interesse di Google per un mercato italiano non presidiato.
In una ricerca commissionata proprio da Google su impatto dei Contenuti Online sul Turismo Europeo, non viene studiata tutta l’Europa ma solo Italia, Spagna e Grecia, quelle più arretrate. Non Francia, non Germania, non UK.
Si aggiunga altro progetto, Made in Italy, rivolto alla digitalizzazione delle PMI artigiane italiane. L’interesse per le nostre eccellenze esiste ed è palese. Chi disprezza compra? Franceschini, invece, ha fatto il ministro. Ha parlato di collaborazioni ma non di svendita. Ricordo che fino a poco tempo fa di turismo non se ne occupava centralmente più nessuno, per uno scellerato referendum che abolì il ministero. Nessuno per anni ha governato realmente una risorsa che vale il 10,3% del PIL e potrebbe valere il doppio.
MODELLI. Come evidenziato da Luca De Biase, moderatore dell’incontro, “sembra ormai chiaro che cultura e turismo siano strettamente connessi. La strana situazione è che la digitalizzazione del turismo sta portando il 30% dei profitti su piattaforme straniere come booking.com. Che cosa possiamo fare?”
Questo il vero tema. Esiste un solo modello di sviluppo digitale valido per tutti? Vuole l’Italia assumere un ruolo in questo processo/mercato valorizzando e tutelando il suo patrimonio che non è solo la cultura ma è proprio la storia? Non solo quella medioevale, la storia che trasuda da arte, cibo, artigianato, design e che ci fa essere il paese turisticamente più desiderato. Franceschini ha affermato che un ruolo, l’Italia, vuole averlo. Se ci riuscirà, se ci riusciremo, è altro discorso affatto scontato, ma è comunque una novità. In passato questi temi la politica li ha colpevolmente ignorati.
Nel 1994 quattro giovani italiani fondarono Venere, realizzando il primo prototipo di sito internet per la prenotazione alberghiera. Nel 2008 è stata acquistata da Expedia nel silenzio più totale, lo stesso anno in cui la politica, invece, sprecava parole e denaro contro la cessione di Alitalia ai francesi.
Ed è stato un italiano, Massimo Marchiori, ad aver inventato Hyper Search, il motore di ricerca che introduce le relazioni, da cui nasce proprio l’idea di Google. Quindi non è la creatività o la competenza che manca in Italia. E’ la mancanza di visione e l’incapacità della politica di essere dentro ai cambiamenti, culturali ed economici.
Non sto dicendo che non serva più informatica in modo diffuso, vorrei fosse chiaro, ma siamo così sicuri che sia sorpassato rivendicare il primato della cultura? Serve tutto e serve non perdere i propri punti di forza distintivi, che peraltro aiutano a comprendere meglio la complessità che viviamo.
Pensare di esportare un modello di formazione senza contestualizzare ha lo stesso senso di importare un modello di ospitalità basato sulle grandi catene: non è questione di giusto o sbagliato. Non funziona, non è esportabile.
Ciò che serve, invece, è un ambiente favorevole in cui le idee, o se preferite chiamatele startup come si usa oggi, possano svilupparsi e diventare impresa.
La frase che più mi ha colpito di Schmidt e che, purtroppo, non ho visto citata in altri articoli, è “make it possible to create businesses in one day”. E’ scattato l’applauso in sala. Abbiamo una zavorra, una burocrazia che uccide la creatività e uno scollamento delle regole (e di chi le fa) dal mondo reale. Di questo dovrà farsi carico il ministro. Come del fatto che alla Sapienza, per un evento di questa portata, non fosse stato predisposto il wifi in sala.
Nel mio piccolo posso raccontare un’esperienza personale: all’Università di Genova, primi in Italia, si insegnava web marketing per il turismo dal 2006. Da due anni quel corso di laurea è stato chiuso. Sono le competenze informatiche o la visione che manca?
Tornando al tema centrale, il nostro patrimonio culturale non può essere – a mio avviso – svenduto, nemmeno nel digitale. Ciò non significa arroccarsi in posizioni di chiusura. Cito Luca Corsato in uno degli articoli che più ho apprezzato:
L’innovazione risiede nel saper valutare il nostro patrimonio ripulendoci delle varie posizioni – siano esse di rendita e/o di difesa – e affrontare il punto. Noi, noi Italiani, non abbiamo le risorse economiche e tecnologiche per attivare una strategia industriale di digitalizzazione. Questo è un dato di fatto. Noi però abbiamo le professionalità di catalogatori, archivisti che si sono formati e lavorano con quei dati ogni giorno. Ed anche questo è un dato di fatto. Quindi è su questo che già si ristabilisce un equilibrio tra Noi Italiani e Google.
Credo che anche con Google possano, anzi debbano, essere trovate forme di collaborazione win-win. Occorre valutare pro e contro, nel breve e nel lungo periodo, e scegliere una strategia di sviluppo digitale per turismo e cultura in Italia, guidando il processo con rapidità e competenza. Questo l’auspicio.
Benigni parla della cultura italiana from Light Diamond on Vimeo.
13 giugno 2014ROBERTA MILANOFaccio parte del TDLAB appena istituito per cui, almeno in piccola parte, coinvolta in questa sfida sul turismo digitale. Ciò che scrivo è mia opinione consolidata ma è un elemento di trasparenza per i lettori che mi sembra doveroso dare.