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Perché dobbiamo difendere i beni comuni dentro e fuori Internet

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Da qualche tempo quello dei beni comuni è divenuto un tema d’attualità internazionale e una pratica diffusa, anche grazie agli strumenti digitali. Tale definizione raggruppa diversi e importanti ambiti quotidiani: acqua, ambiente, infrastrutture e spazi urbani, le filiazioni della stessa Internet, da software e cultura liberi, a reti peer-to-peer e licenze aperte. E ancora: gli orti urbani e le filiere di auto-produzione alimentare, le pubblicazioni scientifiche con open access, le valute alternative a livello locale. Un sistema dalle radici profonde e rizomatiche che non interessa solo l’occidente industrializzato – dalle comunità di sussistenza che in Africa condividono semi, terra e acqua alla pesca auto-gestita nei villaggi costieri in Cile.

Di pari passo, anche come concreta alternativa alla perdurante crisi economica, va crescendo il movimento globale a tutela di questi e altri ”commons”.

Si tratta cioè di spingere il processo per la «riconquista di spazi pubblici autenticamente democratici, base per un pensiero politico e istituzionale nuovo e radicalmente alternativo fondato sulla qualità dei rapporti e non sulla quantità dell’accumulo», come spiega Ugo Mattei nel libro Beni Comuni. Un manifesto (2012).

Quest’impegno diffuso di tanti cittadini globali include naturalmente anche il nostro Paese, a partire dalle battaglie contro il precariato, lo scempio e il consumo del territorio, incluse “grandi opere” quali TAV, Dal Molin, Ponte sullo stretto, e con una moltitudine di iniziative locali (si veda oltre). Ciò a conferma del fatto che «c’è invece un’altra Italia che non si vede ma che da anni migliora la qualità della vita di tutti prendendosi cura dei beni comuni … di cui tutti perciò dovremmo prenderci cura per continuare a godere di standard di vita degni di un paese civile», come ribadisce un altro importante volume, L’Italia dei beni comuni (2012).

E a cui vanno aggiunte le tante iniziative e progetti di innovazione sociale che trovano quotidianamente rilancio proprio qui su CheFuturo.

A corroborare il panorama della crescente ondata per l’affermazione e la tutela dei beni comuni esce ora in Usa Think Like a Commoner: breve introduzione al paradigma dei commons, di David Bollier, esperto internazionale e già autore di altri tomi sul tema, nonché co-fondatore di Public Knowledge, ente non-profit con base a Washington, DC, teso a preservare l’accesso universale alla Rete e alla conoscenza. Si tratta di un articolato excursus mirato a illustrare l’attuale rilancio a livello globale dei commons, evidenziandone tramite esempi sul campo i successi e le potenzialità, senza però nasconderne impasse e problemi.

Come spiega l’autore nell’introduzione, «Dopo aver toccato con mano la confusione esistente da anni nel campo e l’impossibilità per il lettore comune di accedere alla ricca letteratura sul tema, oltre al fatto che i progetti basati sulle risorse condivise sono rari, ignorati o fraintesi – ho deciso che fosse giunta l’ora di curare una sintesi breve e comprensibile sull’intera questione».

Il testo offre così, insieme alle necessarie basi teoriche, ampi squarci sulle sperimentazioni in corso che danno vita a questa rivoluzione diversificata e socialmente responsabile. Con un obiettivo di fondo non da poco ma raggiungibile: «Di fronte alle colossali e inquietanti disfunzioni della governance neo-liberista, questa crescente ondata di attivisti in India e Italia, Germania e Brasile, Stati Uniti e Regno Unito, e in molte altre parti del mondo va coordinandosi in modo furioso grazie alla cultura globale di Internet, immaginando il contesto condiviso per il cambiamento».

Già disponibile in traduzione francese e polacca (entrambi sotto licenza Creative Commons), ne stiamo valutando l’edizione italiana [mailto: [email protected]]. Lo scenario appare insomma alquanto promettente, come conferma qui di seguito lo stesso Bollier in una breve intervista email, in cui delinea altresì le sfide future del movimento (con specifiche note relative a Internet).

D.: Stiamo forse assistendo a una sorta di un “rinascimento” globale per l’affermazione dei beni comuni? Esiste diversità d’approccio tra il mondo occidentale e i Paesi in via di sviluppo? Qualche esempio utile?

R.: Sì, considerate la sue radici antiche e nuove (riscoperte), è lecito sostenere che oggi è in corso un “rinascimento” dei commons. In un’epoca in cui lo Stato spesso è incapace o corrotto, e i mercati prediligono l’aspetto globale e predatorio, i beni comuni offrono un’alternativa più accessibile e adeguata per l’autogestione dei bisogni quotidiani. Si stima infatti che circa due miliardi di persone continuano ad affidarsi a risorse naturali condivise per le loro necessità giornaliere, ignorando il mercato convenzionale e i servizi statali. E siccome ciascuna situazione porta l’impronta del contesto, della storia e della popolazione locali, esistono differenze applicative nelle varie regioni del pianeta.

Nel Sud del mondo tendono a prevalere la massima cooperazione e la gestione sociale decisa sul campo, soprattutto in casi di scarse risorse da gestire nel lungo periodo. Mentre cresce in Europa il numero di coloro decisi ad applicare in modo deliberato i principi dei commons in progetti di ogni tipo. Per l’Italia, basti ricordare il referendum del 2010 contro la privatizzazione dell’acqua, l’occupazione del Teatro Valle nel cuore di Roma, in corso da oltre tre anni e tesa alla creazione dell’omonima Fondazione come Bene Comune, e, in Sicilia, il Museo dell’Informatica Funzionante che rimette in sesto computer rotti e donati per poi ridistribuirli in giro nel mondo, del tutto operativi grazie a software di vecchia generazione.

In che modo i commons si pongono come alternativa di successo al neo-liberismo e alle economie di mercato? E quale il loro apporto sul fronte dell’innovazione?

I commons si contrappongono alla mentalità del tipo “cattura e controlla” del mercato convenzionale basato sul capitale, partendo dall’assunto che certe risorse e pratiche sociali restano inalienabili, cioè non sono beni di consumo né possono essere messe in vendita. In tal modo si afferma la supremazia dei bisogni locali e dello sviluppo umano, invece di strutturare il sistema socio-politico in modo che produca il massimo profitto per il capitale investito.

Anziché privatizzare l’acqua, catturata in bottiglie da vendere sul mercato internazionale, questa rimane un bene comune per l’irrigazione agricola e gli usi domestici. Al posto di navi industriali di qualsiasi bandiera che tirano su tutto il pesce possibile, spetta alla comunità locale decidere e gestire la pesca per le necessità quotidiane. Simili pratiche sono innovative di per sé nel contesto odierno, perché stravolgono l’economia attuale e diventano un veicolo per re-introdurre nuove forme di democrazia autonoma, come in un’era neo-pionieristica.

Come si esprime questo movimento su Internet, e quale il percorso che attende i netizen per affermare il successo dei commons online?

Internet è un’infrastruttura fantastica per l’auto-gestione dei commons. Da Wikipedia all’Internet Archive, dalle comunità dedite al remix e al mashup alla free culture si sta producendo una mole enorme di materiale (codice, documenti e informazioni di ogni tipo, musica, immagini, film, ecc.) del tutto al di fuori degli standard commerciali. Le implicazioni economiche sono ovvie ed estese, ma ciò minaccia direttamente i modelli consolidati nei relativi settori industriali.

Motivo per cui credo che l’industria continuerà nel tentativo di criminalizzare o limitare certe pratiche basate sui commons. Ci saranno ancora battaglie sul copyright e sui brevetti, oltre alle possibili regolamentazioni contro la Net Neutrality o per impedire l’espansione del wi-fi pubblico e gratuito. I grandi dell’hi-tech non gradiscono la “competizione” dei commons digitali, e quindi spingono per creare una dipendenza artificiale da piattaforme commerciali (quali Facebook, Twitter, LinkedIn, ecc.) e per ridurre l’auto-sovranità condivisa dei netizen.

I quali devono perciò usare la loro creatività per ideare nuove tutele legali simili alla General Public License per il software o alle licenze Creative Commons per le opere d’ingegno. Ciò richiede anche nuove strutture tecnologiche e innovativi sistemi di crowdfunding e finanziamento capaci di garantire benefici a tutti. Contesto in cui è vitale chiarire la netta differenza tra commons e piattaforme aperte: i primi affermano senza mezzi termini l’auto-determinazione e il controllo dei partecipanti, mentre le seconde sono di taglio commerciale e offrono opzioni proprietarie che limitano comunque l’auto-sovranità degli utenti.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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Scritto da chef

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