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Perché è importante riscoprire la bellezza di un lavoro ben fatto

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In questo periodo di crisi si parla tanto di lavoro, di occupazione e di misure necessarie per far ripartire l’economia, beh sicuramente non c’è nulla da eccepire ma forse bisognerebbe iniziare a ragionare anche sulla qualità del lavoro.

“Pensate come sarebbe più bella l’Italia se diventasse un Paese nel quale chiunque fa qualcosa, qualunque cosa faccia, cerca di farla bene. Pensateci solo per un momento: francesi, giapponesi, americani, tunisini, inglesi, cinesi, sud africani, russi, insomma tutti i popoli del mondo arrivano e trovano il cartello con la scritta “Benvenuti in Italia, il paese dove ogni cosa viene fatta con impegno e passione”. Dite la verità, non sarebbe più bello vivere in un paese così?”

Conosco Vincenzo Moretti da qualche anno, e ne ho sempre apprezzato il pensiero limpido e coerente, riesce con parole semplici, spesso anche dialettali, a trasmettere concetti complessi.

Lui è sicuramente un visionario del nostro tempo, ve ne accorgerete leggendo le sue risposte alle mie domande:

In un momento storico di crisi come può il lavoro diventare un fattore di innovazione?

Guarda, quello che penso io e che per fortuna iniziano a pensare in molti ma non ancora in tanti, è semplice: l’Italia ha tanto più futuro quanto più riesce a connettere il lavoro con il rispetto, la dignità, l’identità, il senso, l’autonomia, i diritti.

L’innovazione, per me, sta prima di tutto qui, nell’approccio, nella cultura, nella scelta di tornare a dare valore al lavoro, di tornare a rispettare il lavoro e chi lavora, a prescindere dal lavoro che si fa.

Negli altri paesi “ricchi” funziona così, da noi no.

Ti faccio degli esempi. Qualche anno fa, il lavoro mi ha portato a Tokyo, al Riken, uno dei più grandi centri di ricerca chimica e fisica al mondo, e una delle prime cose che ho capito stando lì è che in Giappone chiunque fa qualunque tipo di lavoro gode del rispetto della comunità per il fatto stesso che lavora.

E affinché nessuno pensi che io e i giapponesi siamo strani ricordo Richard Sennett che in un suo bellissimo libro, Rispetto, edito credo da Il Mulino, racconta dello spazzino londinese che il lunedì mattina dopo aver pulito il suo pezzo di strada lo ripercorre a ritroso e osserva soddisfatto il suo lavoro ben fatto.

E se ancora non basta ricordo Valeria, giovane napoletana al tempo di stanza negli Usa, che alla domanda di Marcelle Padovani sulle differenze che aveva potuto osservare tra il lavoro a New York e il lavoro a Napoli ha risposto che a New York, quando incontra il postino o lo spazzino, incontra persone sorridenti, cortesi mentre quando li incontra a Napoli sono insoddisfatti, arrabbiati.

“Signora – ha concluso-, il fatto è che a New York chi lavora è rispettato, a Napoli no”.

Ecco, io credo che Valeria abbia ragione.In Italia dagli inizi degli anni 80 del secolo breve ad oggi il lavoro ha progressivamente perso riconoscimento sociale, siamo diventati un Paese che dà troppo valore a ciò che hai e troppo poco a ciò che sai e sai fare, troppo valore ai soldi e troppo poco al lavoro.

Detto dell’innovazione culturale aggiungo che la risposta alla crisi, per l’Italia ancora di più che per gli altri paesi avanzati, sta nel lavoro ben fatto.

Direi così: crisi da una parte, innovazione, competitività e internazionalizzazione dall’altra, lavoro ben fatto in mezzo. Il che ci riporta nuovamente al bisogno di determinare un cambiamento profondo della prospettiva culturale e sociale prima ancora che economica dell’Italia, al tema “classi dirigenti”, alla necessità di condividere l’idea che le opportunità connesse allo sviluppo di internet hanno tante più possibilità di crescere e di essere colte quanto più strettamente sono connesse al concetto di “qualità”. Qualità del lavoro, qualità dell’impresa e dei suoi prodotti, qualità della PA e dei suoi servizi, qualità sociale, qualità della vita.

Come sta cambiando il lavoro nell’era digitale?

Internet cambia il paradigma, mette in discussione i dogmi precedentemente condivisi, ridefinisce i confini di ciò che per noi è importante, è certo, è stabile, e ciò che invece non lo è, spariglia le carte con cui siamo soliti interpretare il mondo, e noi nel mondo. Dopo di che accade che ancora non abbiamo finito – ma finiremo mai? -, con smartphone e tablet disponibili per tutti già avanza l’internet delle cose, l’internet dell’energia, l’internet delle città.

Il modo migliore per continuare a leggere questo mondo che cambia incessantemente è quello che guarda alla relazione tra lavoro, innovazione, qualità e competitività.

Faccio tre nomi, Ferrari, Olivetti e Marinella per dire che l’Italia è stata o è leader nel mondo ogni volta che sceglie la via della qualità. Il resto, per me, sono chiacchiere, perché ci sarà sempre un cinese, un serbo o un pakistano che riuscirà a produrre prodotti a basso valore aggiunto a costi minori dei nostri. Puntare su lavoro, innovazione e qualità è, per l’Italia e l’Europa, il solo modo per fare sul serio quando si parla di competitività.

Fammi insistere su questo punto, perché non lo dico io, lo dice il Wef, nel Global Competitiveness Report 2013-2014 quando scrive che “la stretta relazione che esiste tra innovazione, capacità competitiva e livello di internazionalizzazione dei sistemi produttivi” è la leva per portare l’Europa fuori dalla crisi.

Lo dicono 1500 Chief Information Officer (Cio) e alti dirigenti IT di tutto il mondo, in un sondaggio realizzato nel 2013 da IDG dal quale emerge con nettezza che le aziende leader a livello mondiale stanno compiendo un’inversione di rotta dalla riduzione dei costi alla creazione di valore, che in particolare negli Usa gli investimenti si stanno muovendo e si muoveranno ancor più nei prossimi 5 anni in direzione di una gestione delle informazioni tesa a creare valore e differenziazione.

Lo dice IBM che nel proprio piano di investimenti impegna oltre 1,2 MLD di dollari per rendere ancora più forte la propria presenza nel mercato del cloud computing.

Lo dice la Harward Business Review che definisce i big data, il cloud, sia nella versione pubblica che in quella privata, la sicurezza gli ambiti nei quali avverranno gli investimenti e le trasformazioni più importanti dei prossimi anni.

Lo dice Oxford Economics quando ricorda la proposta di un’offerta turistica di qualità vale da sola l’1 percento di aumento del Pil e 250mila nuovi posti di lavoro.

Secondo me la morale della storia è, per chi vuole coglierla, come sempre semplice:

bisogna dare più forza, più opportunità, più futuro all’Italia che dà valore al lavoro, che innova, che connette creatività e bellezza, che crede nell’importanza, nel bisogno, nell’urgenza di fare bene le cose perché è così che si fa.

Qual è la storia della notte del lavoro narrato? Come e perché nasce?

Le radici di una notte così sono tante. Del Giappone ti ho già parlato. Poi c’è stato un mio libro, Bella Napoli. Poi è arrivata Le Vie del Lavoro, attività di narrazione e inchiesta partecipata nata dalla collaborazione tra la Fondazione Giuseppe Di Vittorio e la Fondazione Ahref alla quale partecipiamo in tanti, Alessio Strazzullo, Cinzia Massa, Giuseppe Rivello, Gennaro Cibelli, Rosa Barbato e tante/i tante/i altri. Poi ci sono stati il mio primo romanzo, Testa, Mani e Cuore (Ediesse) e il film documentario La Tela e il Ciliegio, diretto da Alessio. E poi ancora l’incontro con Reggionarra, una bellissima manifestazione che si tiene a Reggio Emilia. Metti insieme tutto questo e tanto altro ancora e a un certo punto io e Alessio decidiamo di lanciare questa idea che ancora una volta sta diventando un fatto grazie alla partecipazione e all’impegno di tante/i.

Perché nasce?

Perché vogliamo raccontare l’Italia che pensa «lavoro, dunque valgo», merito rispetto, considerazione.

Perché raccontando storie è possibile attivare processi di innovazione e incrementare il valore sociale delle organizzazioni e delle comunità nelle quali lavoriamo, studiamo, giochiamo, amiamo, in una parola, viviamo.

Perché ci piace l’Italia del barista e della scienziata, dell’artigiano e dell’impiegata, del musicista e dell’operaia, del ferroviere e della manager, dell’apicultore e del meccanico che con il loro lavoro, con l’intelligenza, l’amore, l’impegno che mettono nelle cose che fanno, possono determinare le condizioni per determinare il cambiamento culturale di cui il Paese ha bisogno.

Perché ci piace l’approccio dell’artigiano, quello che ti fa provare soddisfazione nel fare bene una cosa «a prescindere», qualunque cosa essa sia: pulire una strada, progettare un centro direzionale, scrivere l’enciclopedia del dna, cucinare la pasta e patate.

Perché siamo persone in cerca di una cultura, di una vocazione, di quella «cosa che fai con gioia, come se avessi il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo», come diceva Josephine Baker.

Perché le storie che raccontiamo alla fine si prendono cura di noi.

Perché ci piace l’idea di usare le nuove tecnologie per fare in modo che non ci sia più un solo Omero, che naturalmente ci teniamo caro, che racconta di dei e di eroi, ma ce ne siano tanti che raccontino di donne e uomini normali che ogni mattina mettono i piedi giù dal letto e pensano che amano le cose che fanno e che ce la metteranno tutta per farle bene.

Perché aspettare così il Primo Maggio fa bene al cuore, alla memoria e al futuro.

Le parole chiave, se preferisci i tag, alla fine sono questi tre: lavoro, narrazione e partecipazione.

E’ intorno a queste tre parole che il 30 Aprile 2014, a partire dalle 20.30, in tutte le città e in tutte le case che aderiscono all’iniziativa, si incontreranno per leggere, narrare, cantare, dipingere, rappresentare, condividere storie di lavoro donne e uomini diversi per età, interessi, convincimenti e però accomunati dalla voglia di fare bene le cose, di trovare nel lavoro il senso di una vita più ricca e dunque più degna di essere vissuta, di contribuire tutti assieme, portando ciascuno il proprio mattoncino, al Rinascimento dell’Italia.

Ti racconto quello che è successo qualche giorno fa. Allora, la mia amica Maria Silvestri condivide su Facebook il Manifesto che abbiamo pubblicato sul sito e la sua amica Mariarosaria Rorò De Vico, che spero di conoscere presto, scrive sulla sua pagina: “Qualcuno vuole organizzarsi con me? Metto a disposizione la mia casa, è un’iniziativa che trovo grandiosa, chi mi fa compagnia? Nella mia visione utopica, vorrei coinvolgere anche il quartiere, la scuola, le associazioni del rione, mi date una mano?”.

Ecco, per me La Notte del Lavoro Narrato è prima di tutto questo, la voglia delle persone di ritrovarsi e raccontarsi intorno al lavoro.

Quali sono i numeri ad oggi?

All’indirizzo www.lanottedellavoronarrato.org/partecipanti/ c’è l’elenco aggiornato di tutte le iniziative. Sono già un bel numero, una cinquantina, alle quale vanno aggiunte quelle che si terranno nelle case (http://lanottedellavoronarrato.org/casa/), ma quello che sta accadendo negli ultimi giorni mi fa dire che sono destinate ad aumentare man mano che ci avviciniamo al 30 Aprile.

Che ti devo dire, per me davvero sono tutte belle, non me la sento di citarne una piuttosto che un’altra. Faccio così, ti dico le città, avvertendo che in un alcune di esse ci saranno più iniziative: Acerra, Alvignano, Bacoli, Bologna, Bruxelles, Casalbuono, Caselle in Pittari, Cassino, Castel San Giorgio, Cerro al Volturno, Cogoleto, Ercolano, Lucca, Melito di Napoli, Minori, Morigerati, Modena, Montesilvano, Montoro Superiore, Mugnano di Napoli, Napoli, Narni, Padula, Pomigliano D’Arco, Policastro, Portici, Reggio Calabria, Reggio Emilia, Roma, Salerno, San Benedetto del Tronto, San Giorgio a Cremano, Scario, Siano, Trento.

Approfitto per ricordare che utilizzando l’hashtag #lavoronarrato sarà possibile condividere sui diversi social network messaggi, foto, video, ecc. e partecipare al social stream (http://www.inoutlab.it/coworking/lavoronarrato/) in maniera tale che tutti possano seguire ciò che avviene in qualunque posto.

Nel tuo viaggio attraverso l’Italia quali sono le storie che ti hanno colpito maggiormente e perché?

Come ho ricordato prima siamo tanti in questo viaggio, ci tengo a ribadirlo perché come ti ho detto “partecipazione” in questa faccenda è una parola importante.

Vedi, io spero davvero che quella del 30 Aprile sia una notte indimenticabile, però quello che ritengo veramente importante è quello che sta avvenendo prima e quello che spero continuerà ad avvenire dopo.

Ti faccio tre piccoli grandi esempi:

    1. Rosa che a Casalbuono organizza la notte in una stalla, perché nei tempi passati era lì, dove c’erano gli animali che facevano calore, che le donne del paese si incontravano la sera per ricamare o fare altri lavoretti, raccontare storie, recitare il rosario, qualche volta trovare il fidanzato;
    2. Officine Educative che a Reggio Emilia organizza l’evento nelle Officine Reggiane e lo prepara con iniziative nelle scuole, con attività teatrali, con il coinvolgimento delle associazioni giovanili; (http://youtu.be/ZOqn2gR3ho0 )
    3. l’Istituto Comprensivo 70 Marino Santa Rosa di Ponticelli, Napoli, che prepara l’iniziativa con le bimbe e i bimbi delle elementari che fanno interviste video alle mamme e ai papà, con opere d’arte dedicate al lavoro riprodotte dai bambini e tanto altro ancora. (http://youtu.be/VTgxnE0jVrc).

Come direbbe Tony D’Amato – Al Pacino se fossimo in “Ogni maledetta domenica”, è la cultura del lavoro che si diffonde attraverso il racconto ragazzi, è tutto qui.

Ecco, il fatto che gli autori e gli interpreti di questa cultura siano centinaia, migliaia di persone di ogni età è per me il significato più grande di questa iniziativa.

Come diceva mio padre una noce nel sacco non fa rumore, ma se ne metti tante assieme la faccenda cambia, altroché se cambia.

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Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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