Tutti gli appassionati sanno che l’arte è popolare per antonomasia. Basti pensare che gran parte del patrimonio artistico italiano, e non solo, nasce proprio dall’esigenza delle istituzioni religiose e civili di rappresentare al popolo, attraverso la pittura, la scultura e finanche l’architettura, i temi che hanno segnato la storia degli uomini nel corso dei secoli. Dall’età antica a quella medioevale, da quella moderna a quella contemporanea tutte le civiltà hanno sentito questo bisogno. Oggi come ieri la finalità di qualsiasi opera d’arte è quella di essere ammirata e apprezzata dal grande pubblico.
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L’arte e la cultura al tempo dei social media
Nell’era di internet, quindi, potremmo dire che l’arte è social, ma non per i musei italiani. Secondo il X Rapporto Civita “#Socialmuseums.
Social media e cultura, tra post e tweet” la maggioranza degli enti culturali del Belpaese utilizza poco e male i social network. Un’occasione mancata per attivare sinergie virtuose con i 36,5 milioni di italiani che li frequentano abitualmente, il 60% della popolazione. Si tratta di un bacino di potenziali visitatori non solo per i musei più blasonati, ma soprattutto per quelli meno conosciuti sparsi in ogni angolo dello Stivale.
I social, infatti, potrebbero essere il loro principale strumento di marketing nel territorio, capace di raggiungere migliaia di cittadini, di fidelizzarli, di coinvolgerli.
Attività che farebbero crescere la reputazione del museo stesso e di conseguenza l’interesse nei suoi confronti da parte degli altri utenti del cyberspace, ovvero degli altri cittadini del mondo offline.
Invece, le istituzioni che per statuto dovrebbero valorizzare lo straordinario patrimonio di cui sono depositarie ignorano le potenzialità di queste piattaforme di comunicazione. Un comportamento oggi poco comprensibile. È come se un’azienda decidesse di non mettere i propri prodotti negli scaffali dei negozi o che un leader politico andasse in un talk show per fare scena muta.
Dai dati emerge che solo 9 milioni di utenti (il 36,6%) entrano in relazione con le istituzioni culturali attraverso i social network.
Inoltre, quando lo fanno si limitano ad approfittare dei servizi di fruizione virtuale e a scaricare i materiali messi a disposizione dall’ente, mentre l’acquisizione di informazioni per la prenotazione o l’acquisto del biglietto di ingresso sono nettamente sottoutilizzati. Per non parlare della user-generated content (Ugc), ovvero la capacità di stimolare gli utenti a generare contenuti relativi all’ente e alle sue attività.
Una funzione del tutto sconosciuta in Italia.
Viviamo, quindi, una situazione paradossale: deteniamo i più bei tesori artistici del mondo ci vantiamo ovunque di questo prestigioso primato, ma facciamo davvero molto poco per promuoverli.
Sappiamo anche che puntare sui beni culturali e quindi sul turismo culturale vuol dire produrre ricchezza e posti di lavoro. Perché, allora, questa schizofrenia? Come mai i musei non investono sui social network? L’indagine di Civita, che ha preso in esame un campione rappresentativo delle diverse offerte, ha tentato di dare delle risposte.
Le ragioni
Le motivazioni, ovviamente, sono molteplici. Partiamo da quella più semplice: l’utilizzo dei social per attrarre visitatori non costituisce ancora un obiettivo strategico per entrare in relazione con i propri pubblici o per attrarre visitatori.Potrà sembrare banale, ma è proprio così. Il risultato dei questionari somministrati ai direttori e ai responsabili della comunicazione dei musei dice questo. Fanno eccezione i musei d’arte contemporanea capaci di richiamare pubblici trasversali e meno assidui, dai cosiddetti “nativi digitali” a persone più mature.
C’è poi il problema della scarsa conoscenza e competenza relative ai social media. Di solito non esiste un piano e quindi una strategia di comunicazione sul web ed in particolare sui social. Capita spesso, ad esempio, che vengano scelte piattaforme e realizzate attività senza che queste vengano associate ad obiettivi specifici.
Andando più sull’aspetto qualitativo, l’indagine evidenzia la bassa propensione a creare relazioni bidirezionali con gli utenti. Anche sui social, che sono luoghi vocati allo scambio e all’interazione, i musei privilegiano la comunicazione tradizionale one way. Il linguaggio adoperato, inoltre, non è coinvolgente e quindi inadatto al pubblico digitale.
Ma soprattutto quasi tutti i musei lamentano la mancanza di risorse finanziarie per l’acquisizione di competenze specializzate. Una costante per qualsiasi ente pubblico italiano, che comunque non giustifica un più efficace sfruttamento di queste piattaforme.
Non c’è dubbio che l’Italia abbia bisogno maggiori investimenti nel settore. Se oggi la raccolta pubblicitaria sul web ha nettamente superato quella televisiva e se tutte le multinazionali e le grandi imprese hanno deciso di essere presenti sui social network vorrà pur dire qualcosa. Aprire dei profili però non basta, la comunicazione nel socialspace necessita di programmazione, creatività, interazione con gli utenti.
Il web prima e i social poi hanno dato ai cittadini la possibilità di accedere alle informazioni e di comunicare senza la potente mediazione dei mass media. Il cyberspace è il luogo della comunicazione contemporanea. Uno spazio abitato da miliardi di persone dove ognuna si rappresenta, condivide la propria vita e quella degli altri con un post, un tweet, un selfie o un video.
I musei e le istituzioni culturali italiane non possono continuare a ignorare o a sottoutilizzare questa realtà. A tal proposito il Rapporto suggerisce alcune idee interessanti: l’uso integrato di fondi nazionali comunitari, come Agenda Digitale, Horizon 2020, Erasmus+, Industria Creativa; la destinazione delle entrate aggiuntive dei musei più visitati alla formazione di personale qualificato o per l’attivazione di collaborazioni con professionisti o aziende leader nel settore, mentre per i musei con minore affluenza l’incentivazione di una gestione a rete dei servizi dedicati alla comunicazione in modo tale da ridurne i costi.
Due proposte che non possono prescindere dalla sconfitta di uno dei peggiori mali dell’Italia, nemico giurato dell’innovazione: le resistenze culturali di una classe dirigente troppo spesso adagiata sulla conservazione delle status quo.
MATTEO SCIRÈ