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Perché i cittadini sul web possono rafforzare la Protezione Civile

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“E se domani”, uno dei grandi classici della canzone italiana, fu presentato al Festival di Sanremo 1964 da Fausto Cigliano e Gene Pitney, spuntando un misero penultimo posto in classifica.Fu Mina che ripescò il brano nello stesso anno, trasformandolo nell’evergreen che tutti oggi conosciamo.

Ne parliamo adesso perché, proprio l’arcinoto ritornello viene continuamente riproposto parlando di rischio naturale: “E… se domani”, si dice. E poi segue una ricca varietà di possibilità come: “piovesse a Firenze quanto nell’anno dell’alluvione”. Oppure “venisse giù la stessa acqua che cadde a Genova quando straripò il il Fereggiano”. O “Arrivasse in Irpinia una scossa di terremoto come quella del 1980…”. Per poi giungere alla domanda fatidica: “cosa accadrebbe?”.La risposta spesso è la solita, si allargano le braccia, si scuote la testa, si alzano gli occhi al cielo: si sarebbe punto e daccapo.

In effetti mai la difesa del suolo, nel nostro Paese è stata depressa come in questi ultimi anni.

Un po’ perché la politica, nonostante mille proclami se ne disinteressa bellamente. Un po’ perché vige una mentalità “operistica”: per “mettere in sicurezza” l’Italia, ci vogliono le “opere”.Per fare le opere, poi, ci vogliono i soldi e si ritorna al punto: la crisi, la spending review, l’equilibrio dei conti. Di queste cose, peraltro, parlo estesamente in un e-book uscito quest’anno.

Però è un fatto che questi disastri, oltre a provocare lutti tanto dolorosi quanto intollerabili, ci costano cifre pazzesche, oltre 20 miliardi negli ultimi due anni, secondo un recente rapporto CRESME.Ma, di più ancora, interrompono continuamente il già faticoso cammino del Paese trasformandolo, specialmente in alcune regioni, in un doloroso stop and go.

Come in alta Toscana dove gli stessi comuni piegati dal terremoto dello scorso giugno, sono adesso ad affrontare i danni delle alluvioni di ottobre. Mentre potrebbero pensare alla banda larga, a promuovere il loro territorio, al futuro dei loro ragazzi prima che se ne vadano.Un futuro che va avanti invece in mezzo a continui spezzettamenti, traumi più o meno importanti che complicano continuamente il percorso rendendolo incerto e faticoso.

Torno al discorso delle “opere”. Il pensare di difendere il Paese con quest’unica opzione equivale a concepire le politiche sanitarie in termini di sola costruzione di nuovi ospedali. Strutture moderne ed efficienti certo non fanno male.Ma la promozione diffusa di una vita sana, la spinta verso buona alimentazione, lo sviluppo delle pratiche di prevenzione, l’organizzazione innovativa della filiera diagnostica e terapeutica costituiscono elementi altrettanto importanti e ancora più imprescindibili.

Ecco, nel nostro rapporto con il rischio naturale, questa seconda parte è assente. Una visione monca, lasciata a metà, come un ponte interrotto che finisce nel nulla.

Manca a livello di comunicazione, di informazione, di presa di coscienza. Le allerte meteo sono spesso valutate alla stregua del passaggio dell’uccellaccio del malaugurio.

Tante forme di difesa attiva e passiva, che potrebbero essere facilmente messe in campo a basso costo, sono considerate stupidi palliativi o addirittura fonti di allarme sociale. La gestione del territorio, arma straordinaria sul medio o lungo periodo, un costo doloroso che è difficile da mandare giù.

Eppure semplici pratiche di riduzione del danno costerebbero poco e salverebbero buona parte delle vite che disgraziatamente si perdono, almeno nel caso del maltempo, in corso di evento conclamato, quando il seguire semplicemente poche regole di comportamento, costituirebbe di per sé il necessario per salvarsi la vita.

Ma la cosa che manca forse di più è la comunità. Il web è zeppo di community il cui baricentro è, in fondo, uno specifico interesse comune.

L’essere tutti esposti al rischio naturale, chi più chi meno, è un innegabile fattore aggregante, appunto, di interesse comune. Lo è perché ne va di mezzo la tutela delle nostre vite, prima che della casa, dei beni, delle attività.

Ma anche perché i danni, che emergono continuamente come lava dalla bocca di un vulcano infaticabile, richiedono un immenso esborso di denaro pubblico che è sottratto ad altre finalità e che deve essere sotto gli occhi di tutti, quantomeno per percepirne l’entità e comprenderne le modalità di spesa.

Il fatto è che il danno, per quanto frequente, è comunque (fortunatamente) incerto e discontinuo. Per cui tende ad essere esorcizzato e rimosso, almeno fino a quando non si concretizza nei fatti.Sono insomma molti di più i comitati di cittadini alluvionati che quelli di cittadini esposti al rischio che chiedono di essere difesi.

Un’ azione sui social media finalizzata a una presa di coscienza comunitaria è fondamentale. E può dare frutti portentosi.

Sia in termini etici, che sociali e economici. Gli effetti iniziano a peraltro già vedersi. Dal contributo sempre più imprescindibile del citizen jounalism nella analisi degli eventi, a forme di gestione trasparente dei modelli di intervento come http://openricostruzione.it

E pure la Protezione civile nazionale, mondo del “non strutturale” per eccellenza, si sta da tempo muovendo bene in questo senso.C’è pure un convegno a Roma il prossimo 15 novembre.

E poi, dovunque si guardi, siamo pieni di associazioni di volontariato, di gruppi, di energie spese per gli altri che vanno ascoltate, sviluppate e valorizzate. Fare rete con gli strumenti della rete è una delle strade, forse la più potente.

Sempre che il nostro Paese sia sufficientemente maturo. Nel 1964 il Festival di San Remo lo vinse poi la Cinquetti, con “Non ho l’età”…

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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