I giornali, specie quelli periodici, sono in una fase quantomeno difficile. Non da oggi, ma da fine 2008, con l’inizio della crisi economica che ben conosciamo. A dire il vero, non si capisce come potessero non esserlo prima e come possano essercene ancora così tanti aperti oggi.
Mi permetto quest’affermazione per almeno quattro motivi, due riconducibili a errori manageriali, due a errori giornalistici:
1. il costo della pubblicità sui giornali è, a tutt’oggi, non commisurato ai numeri effettivi che con quell’investimento si raggiungono, mentre su internet ogni contatto ha un costo preciso e certificato. Il sistema centri media regge ancora, ma è destinato a sgretolarsi se non agirà per cambiare la modalità di acquisto spazi nel reale interesse dei brand che investono denaro in advertising;2.
Il management delle società editoriali si è preoccupato di tagliare i costi e non di capire come rilanciare, o trasformare, i prodotti che aveva;3. i giornalisti hanno man mano creato prodotti sempre più autoreferenziali e sempre più scollati dal reale lettore che, così facendo, si è disaffezionato. Oggi molti periodici, e non soltanto quelli, parlano alla redazione delle cose che interessano la redazione;4. i giornalisti non hanno voluto capire che modalità di lavoro e contratti fin qui avuti non sono più sostenibili: serve aggiornarsi, imparare a lavorare seriamente in maniera multimediale, rinunciare a qualche super diritto a favore di maggiore flessibilità e innovazione.
Le grandi aziende che investono in pubblicità, però, non sono state a guardare: molte hanno ridotto la spesa in adv tabellare (le classiche pagine di pubblicità), hanno chiesto sempre più iniziative speciali, hanno spostato altrove gli investimenti (non è un segreto che il settore automotive ormai la carta stampata l’abbia quasi tagliata in favore del web).
Insomma, si sono mosse, mentre editori e giornalisti continuavano, e continuano, a proseguire sui propri passi: non si aggiornano, non innovano, spesso rifiutano o nemmeno comprendono la base dell’evoluzione tecnologica (trovo aberrante, per fare un esempio banalissimo ma altrettanto significativo, che alcuni giornali scrivano di scaricare la propria versione per iPad dall’Apple Store… App Store, dove App sta per Applicazione, l’Apple Store, cari giornalisti e publisher, è un negozio dove si comprano computer e iPhone…).
Di più: alcune aziende hanno iniziato a creare prodotti editoriali propri, esattamente come quello su cui state leggendo questo articolo: “Investo xmila euro in pubblicità su giornali che non legge più nessuno, o creo un mio webmagazine che intercetti potenziali clienti e contribuisca a rafforzare i valori del mio brand?”.
Questa è la domanda che molti direttori marketing e amministratori delegati si fanno, e sempre più scelgono la strada che Che Banca! sta percorrendo con CheFuturo!. È una evoluzione del brand journalism, la scelta di sposare alcuni valori su cui costruire una testa periodica, sia essa sul web o altrove.
La domanda, allora, è semplice: chiuderanno tutti i giornali, in favore di prodotti creati dai brand? No, perlomeno non credo, anche perché alcuni editori negli ultimi 12-18 mesi hanno iniziato a cambiare per davvero. Di certo, però, sopravviveranno quei giornali che si trasformeranno loro stessi in brand, in prodotti cioè riconoscibili e parte di sistemi complessi. Non soltanto il giornale in edicola, insomma, ma un brand di cui il periodico è una parte. Soltanto una parte. Questo significa investire in formazione e innovazione, favorire l’evoluzione creativa e mischiare giornalismo e marketing. Le redazioni, cioè, non possono più essere dedicate solo allo scrivere, nell’epoca della content curation un articolo non può più impiegare tre, quattro o anche cinque persone prima di arrivare in pagina.
Le redazioni, quindi, si dovranno trasformare in agenzie creative trasversali e il giornale in un brand capace di creare e vendere prodotti e servizi differenti: il periodico in edicola, certamente, ma anche app native per smartphone e tablet, corsi di formazione, eventi di entertainment, prodotti come vestiti e oggettistica, collane di libri ed ebook, festival, addirittura festival, negozi o caffè. Un giornale-brand che diventa sistema e che allarga il business appoggiando il successo sullo sviluppo di una community ampia e solida: il futuro è qui.
Se, faccio un esempio, Mondadori avesse lavorato in questo senso con Men’s Health, caso in cui la creazione di community e prodotti/servizi correlati sembrerebbe abbastanza semplice, probabilmente non lo avrebbe chiuso. Se Wired proseguirà deciso sulla strada del festival, come punto di partenza e non di arrivo, potrà avere futuro. Gli altri proseguiranno la strada intrapresa, quella che porta alla chiusura: lo sappiano i giornalisti, troppo attenti a difendere posizioni acquisite più che a innovare il modo in cui fa questo mestiere. Lo sappiano gli editori, troppo attenti ai costi da tagliare e non allo sviluppo dei loro prodotti.
ALESSANDRO RIMASSA