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Perché i makers piacciono a Obama (e stampano in 3D nello spazio)

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Con un certo orgoglio, il 22 novembre scorso abbiamo assistito al lancio nello spazio della nostra astronauta Samantha Cristoforetti diretta verso la Stazione Spaziale Internazionale per l’inizio della lunga missione n. 42 denominata “Futura”.

Samantha Cristoforetti, primo astronauta italiano donna nello spazio

Tra le varie attrezzature e rifornimenti trasportati dalla capsula Sojuz che portava Samantha e i suoi due colleghi astronauti verso la ISS c’era anche una stampante 3D.

Per la prima volta nella storia una stampante 3D è stata inviata nello spazio.

La prima cosa che potrebbe venire in mente è che la lunga missione preveda anche sperimentazioni sulla tecnologia di stampa 3D in assenza di gravità.

Tuttavia, tale tecnologia, oltre a non essere proprio nuova, esistendo da almeno un paio di decenni, funziona perfettamente in assenza di gravità, come ben sa ogni maker che costruisce stampanti 3D nel proprio garage.

A questo punto, molti di voi staranno pensando che forse lo scopo più ovvio della stampante 3D, una volta raggiunta la sua destinazione in orbita, sia proprio quella di stampare.

Conferma di questa banale tesi sembrerebbe essere un episodio avvenuto pochi giorni dopo l’arrivo dei membri della Missione Futura sulla ISS, quando Barry Wilmore, comandante della stazione spaziale, improvvisamente si accorge di avere urgentemente bisogno di una chiave inglese per smontare una non meglio specificata apparecchiatura montata a bordo della complessa struttura. In men che non si dica, dalla NASA gli inviano prontamente l’utensile via e-mail, o meglio, inviano una e-mail con allegato un file che rappresenta il modello 3D della chiave inglese e il Comandante Wilmore se la stampa con la stampante 3D, che, quando si dice il caso, era arrivata proprio qualche giorno prima.

Se non ci credete, ecco qui il link al sito della Nasa dove potrete scaricare il file e stampare da voi quello che oramai è diventato il primo utensile della storia stampato nello spazio.

In realtà più che di una chiave inglese, come imprecisamente riportato dalla maggior parte dei giornali si tratta di una chiave a cricchetto, ma non è questo il punto, il fatto è che riesce un po’ difficile pensare che dopo 42 missioni meticolosamente pianificate da tecnici e scienziati di 5 importanti agenzie spaziali internazionali, tra le svariate tonnellate di materiale inviato si fossero dimenticati di mandare su uno dei più comuni attrezzi reperibile sul banco di qualunque scamuffa officina terrestre.

Se poi veramente avrete voglia di provare a stampare l’attrezzo e sperimentarne l’utilizzo tentando di svitare un bullone ben serrato, come si presume siano i bulloni in opera presso la ISS, vi accorgerete facilmente di quanto la cosa sia poco funzionale, per cui evidentemente non hanno spedito la stampante 3D per inviare via e-mail gli attrezzi che sbadatamente potrebbero essere stati dimenticati a terra.

Certo però che l’idea della chiave inglese inviata per e-mail è suggestiva. Molto suggestiva. E proprio riflettendo su questa suggestione che ho avuto un’illuminazione.

Improvvisamente ho capito che il vero motivo per cui è stata inviata la stampante nello spazio (e subito dopo la chiave a cricchetto per e-mail) è che tutto ciò è molto più suggestivo di una giraffa robotica che si aggira nei giardini della Casa Bianca emettendo effetti luminosi al suono di disco music anni ‘70.

Che c’entra la giraffa?C’entra molto, perché la stampante 3D è la suggestione ma la giraffa è la chiave per capire l’importanza di questa suggestione.

Procediamo per gradi.

Se l’idea della giraffa robotica vi suona strana, vi siete persi uno degli eventi più importanti organizzato dalla comunicazione che sostiene la politica economica dell’Amministrazione Obama.

Il 18 giugno 2014, presso la Casa Bianca di Washington si è svolta un’edizione speciale della Maker Faire. La Maker Faire è un evento che con le sue diverse edizioni, che oramai avvengono periodicamente su tutto il pianeta, celebra il movimento maker, come molti lettori di questo blog ben sanno.

Lindsay Lawlor è un maker americano, anzi uno dei più famosi e tipici maker americani. I maker sono oramai noti al grande pubblico perché costruiscono da soli stampanti 3D. Ma in realtà non tutti i maker costruiscono stampanti 3D e Lindsay Lawlor è uno di questi. Il suo hobby è un altro. Nel suo garage officina ha realizzato la celebre “Electric Giraffe”, in pratica un robot metallico semovente, alimentato con comuni batterie da automobile, a forma e a grandezza naturale di giraffa, ricoperto di LED (diodi luminosi) di vario colore, dotato di potenti altoparlanti, di quelli da concerto allo stadio per intenderci, lettore di musica MP3 e scheda elettronica a microprocessore per il governo delle diverse funzioni.

Negli Stati Uniti non c’è Maker Faire che si rispetti che non veda aggirarsi il rumoroso, e piuttosto kitsch a dirla tutta, marchingegno del signor Lawlor. Ovviamente Lawlor figurava tra i partecipanti VIP della Maker Faire White House e in rete è facile trovare le foto in cui Barack Obama conversa amichevolmente con lui al cospetto della assurda Electric Giraffe.

Barack Obama e Lindsay Lawlor. Foto The Whashington Post

LE NUOVE TECNOLOGIE SONO ALLA PORTATA DI TUTTI

Ma perché gli economisti di Obama mostrano così tanto interesse verso personaggi come Lawlor e manufatti come la giraffa robotica, tanto da ufficializzare l’attenzione verso il movimento maker organizzando una saga di settore nel giardino di uno dei sancta sanctorum del potere occidentale?

Il punto è che l’opera di Lindsay Lawlor, come quella degli altri espositori invitati, è la dimostrazione tangibile del fatto che la maggior parte delle tecnologie che hanno sostenuto, e che ancora sostengono, il nostro sviluppo industriale sono oramai alla portata di qualunque individuo sufficientemente motivato ed ingegnoso.

Alcuni fenomeni avvenuti negli ultimi decenni, soprattutto nel settore del software, con la nascita dei movimenti open source, hanno già dimostrato che la democratizzazione, intesa come la disponibilità generalizzata, della tecnologia è un fattore che determina un’accelerazione del progresso in quel particolare settore.

Quando una tecnologia o una risorsa diviene realmente di pubblico dominio, milioni di persone ne guadagnano accesso praticamente a costo zero.

L’abbattimento delle barriere d’ingresso alla tecnologia, sia tecniche che economiche, fa si che la tecnologia inizi ad essere utilizzata non solo per scopi ritenuti utili o necessari ma anche per semplice divertimento o per dare sfogo alla propria creatività.

Così come quando una risorsa utile e necessaria come l’acqua diviene talmente abbondante per una società da non avere praticamente più costo allora si iniziano a costruire fontane, laghetti e giochi d’acqua nei giardini, così elettronica, meccanica di precisione, robotica ed informatica, una volta divenute facilmente accessibili, iniziano ad essere utilizzate per costruire manufatti futili come giraffe robotiche che producono effetti da disco music.

Contemporaneamente milioni di persone, spinte dalle proprie motivazioni personali, spesso di carattere ludico o artistico, utilizzano le tecnologie, le perfezionano e, grazie alla rete, le condividono con altri individui creando un’intelligenza collettiva che innesca un processo di sviluppo esponenziale delle tecnologie stesse.

Credits: inmojo.com

DAL SOFTWARE ALL’HARWARE, OGGI TUTTO E’ OPEN

L’esempio di ciò lo abbiamo avuto con la nascita del movimento open source nel settore del software. Il sistema operativo Linux, ad esempio, nato in ambito accademico e cresciuto grazie al lavoro svolto dai vari gruppi di sviluppatori open source attraverso la rete, nei primi anni ’90 era considerato poco più di un giocattolo, alternativa gratuita come sistema operativo da PC per utenti “smanettoni”.

Oggi Linux è il sistema operativo più utilizzato dai grandi sistemi Unix.

Nel giro di pochi anni ho visto capitolare quasi tutti i grandi vendor internazionali che hanno abbandonato i propri sistemi proprietari Unix per adottare Linux.

Il fatto è che, per quanto grande, nessuna struttura di ricerca e sviluppo potrà mai competere con milioni di programmatori che cooperano in rete per evolvere un sistema aperto.

Il fine di ciascuna delle persone che collaborano ad un progetto open source può essere individuale e non necessariamente legato ad un uso commerciale della tecnologia, ma l’effetto di questi processi collaborativi finisce per avere importanti ricadute sul sistema industriale di riferimento.

Il movimento maker è la traslazione nel settore manifatturiero del movimento hacker che nel settore del software ha trasformato radicalmente l’industria informatica. Dall’open source (software) all’open hardware (industria manifatturiera).

Il problema degli Stati Uniti e delle economie occidentali in generale è che, sebbene la progettazione sia effettuata in casa, la manifattura è stata esternalizzata verso nazioni in cui i costi di manodopera, e purtroppo anche i diritti dei lavoratori, sono inferiori.

Siamo pieni di bellissimi oggetti high tech che recano la dicitura “designed in California” ma anche contemporaneamente “made in China”.

Riportare la manifattura in occidente non sarebbe sostenibile, almeno secondo un modello tradizionale basato sul paradigma della grande industria di stampo fordiano.

Oggi progettiamo i nostri manufatti high tech con i software CAD (Computer Aided Design) in occidente, per poi inviare i file, fatti di “bit”, al di là dell’oceano dove impianti industriali robotizzati governati da software CAM (Computer Aided Manufacturing) realizzano i prodotti, fatti di atomi.

A questo punto migliaia di container vengono riempiti con i prodotti finiti che vengono trasportati sulle nostre sponde con grande dispendio di risorse per l’intero pianeta.

Il prof. Neil Gershenfeld direttore del “Center for Bits and Atoms” del MIT di Boston ha mostrato con il suo modello di laboratorio chiamato Fab Lab come con le attuali tecnologie open source sia oramai possibile realizzare praticamente qualunque manufatto industriale in una struttura che se non è proprio assimilabile al garage di casa è comunque alla portata di una qualunque azienda artigianale medio-piccola.

Oggi questo è possibile grazie alla democratizzazione delle tecnologie di fabbricazione digitale.

Rilanciare i grandi impianti industriali in occidente non sembra essere un’operazione economicamente vantaggiosa stante l’attuale situazione di mercato, mentre ipotizzare lo sviluppo di una rete di piccoli impianti alla portata degli investimenti delle PMI sembra essere un percorso molto più sostenibile e con elevate probabilità di successo.

Sviluppare il tessuto imprenditoriale di dimensione artigiana favorendo l’adozione di tecnologie di fabbricazione digitale permetterebbe di realizzare una rete di centri manifatturieri in grado di fabbricare prodotti di qualità industriale, assolutamente competitivi con quelli sfornati dalle grandi catene di produzione, in piccola scala, in prossimità dei consumatori finali, con la possibilità di personalizzare a dismisura il prodotto per i singoli clienti.

I MAKERS COME PARADIGMA DI UNA NUOVA ERA

Un domani potrei ordinare la mia city car iper tecnologica, personalizzandola secondo i miei gusti sul sito web del brand di mio gradimento, per poi passare a ritirarla dopo i soliti 30-40 giorni presso il punto di fabbricazione più vicino a casa mia.

Il mio meccanico di fiducia è in grado di smontare completamente la mia utilitaria e rimontarla, (purtroppo a volte è necessario porre in atto parzialmente questo processo per sostituire la lampadina dei fanalini posteriori), per quale ragione non dovrebbe essere in grado di diventare un punto di fabbricazione se dotato delle giuste macchine? In questo nuovo modello i bit e non gli atomi viaggiano fino al territorio del consumatore.

Il risparmio che si ottiene eliminando dalla filiera tutta la logistica connessa al trasporto intercontinentale delle merci e alla successiva distribuzione andrebbe a beneficio della struttura produttiva permettendo una migliore remunerazione del lavoro nel pieno rispetto degli standard occidentali.

Il progetto è assolutamente sensato e occorre diffondere e sviluppare la cultura della fabbricazione digitale favorendo i processi che portano alla democratizzazione delle tecnologie.

Per questo l’Amministrazione Obama deve in primis omologare nel mainstream il movimento maker, che fino a ieri era un movimento di controcultura. Lindsay Lawlor molto probabilmente non si metterà a fabbricare city car spedite dalla General Motors per e-mail nel suo garage e continuerà a perfezionare la sua giraffa, tuttavia il suo lavoro, unito a quello di tutto il movimento che sta crescendo sempre di più su scala mondiale, contribuirà allo sviluppo delle tecnologie che abiliteranno il nuovo modello industriale.

IL POTERE DELLA SUGGESTIONE

Come ulteriore intervento serve anche fornire suggestioni che colpiscano l’immaginario collettivo affinché individui fino ad oggi visti come potenziali operai di una fabbrica manifatturiera vecchio stampo siano stimolati ad avviare attività imprenditoriali secondo il paradigma innovativo che in Italia qualcuno chiama Artigianato 2.0 o Artigianato Digitale.

Negli USA l’artigianato non è così connaturato al tessuto economico e sociale come in Italia e in questo processo di trasformazione del paradigma industriale potremmo addirittura essere in vantaggio rispetto a molte altre nazioni a patto di non sprecare l’occasione attraverso scelte politiche miopi e improntate a vecchie logiche.

In ogni caso servono anche le suggestioni che stimolino l’interesse della maggioranza del pubblico che ancora è piuttosto distante da un movimento appena entrato nel mainstream.

In questo senso la chiave inglese spedita per e-mail sulla stazione spaziale internazionale, che in quanto spaziale evoca immagini di orgoglioso progresso tecnologico per l’intera umanità, è un fatto molto suggestivo, e le suggestioni stimolano l’interesse.

Ed è proprio per questo che mandiamo le stampanti 3D nello spazio.

STEFANO CAPEZZONE

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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